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"Dogville" di Lars von Trier

10 novembre 2003 Recensioni 9 Commenti
Dogville

Medusa, 7 Novembre 2003 – Geniale

Durante la Grande Depressione, la fuggitiva Grace arriva nel piccolissimo paese di Dogville, sulle Montagne Rocciose. I 15 abitanti del paese decidono di ospitarla per due settimane, e Grace si prodiga ad aiutare tutti. Quando però si scopre che Grace è una ricercata gli abitanti iniziano a sfruttarla in cambio di protezione…


Paul Bettany e Nicole KidmanSulla carta, Dogville potrebbe semplicemente sembrare un film di denuncia sulla cattiveria profondamente radicata all’interno dell’animo umano, che sa rispondere solo col ricatto a chi è stato corretto e disponibile; se tutto questo è certamente vero, altrettanto reale è il fatto che Lars Von Trier, regista non nuovo alla sperimentazione, ha scelto un mezzo scenico davvero particolare per narrare la sua storia. La città di Dogville è in realtà una piattaforma teatrale sulla quale le case, le strade, i muri, gli alberi, sono tracciati con il gesso bianco sulle tavole nere dell’impiantito; anche Mosè, il cane di una delle famiglie, è un’inquietante sagoma bianca tracciata all’interno di un recinto altrettanto inesistente.

Una scenaComincia in questo modo il geniale gioco degli opposti creato dal regista: bianco abbagliante il giorno, nera la notte. Spazio totalmente aperto il set ma con muri molto più reali di quelli di cemento. Porte inesistenti che si aprono e si chiudono con i soliti rumori. Questa presenza/assenza di limiti e confini fa sì che Dogville non sia più un insieme di singoli abitanti, ma un’entità reale, contro la quale Grace dovrà combattere la battaglia più dura della sua vita. Anche se a Dogville vivono solo una ventina di persone, c’è proprio tutto quello che serve a dimostrare le peggiori qualità dell’uomo: l’opportunismo, l’avarizia, la sopraffazione, il tradimento, la paura, l’ignoranza, il dolore di chi vive nella povertà, ma sa anche dimenticare la solidarietà per proprio tornaconto personale.

Nicole Kidman e Ben GazzaraUn film atipico anche nella struttura narrativa, Dogville; diviso in un Prologo e Nove Capitoli, che scandiscono la narrazione proprio come farebbero le pagine di un libro, graficamente, all’inizio di ogni nuova fase della narrazione (la versione originale era di 178′, quella che vedrete al cinema, di 133′, è stata tagliata dal regista). Alcune sequenze sono degne della storia del cinema: lo stupro di Grace, che avviene al “chiuso” di una delle case, ma nella realtà scenica perfettamente visibile agli occhi dello spettatore; il viaggio sul camioncino, in cui luci, colori, visibile e non visibile si mescolano fino a creare un quadro di impressionante realtà…

Nicole KidmanMeravigliosa la Kidman, alla quale il regista dichiara di aver pensato ancor prima di scrivere il film; ottimo il resto del cast, anche se l’unica vera protagonista, oltre alla Kidman, è proprio Dogville. Perfetta la musica di Vivaldi, non molto presente ma ossessiva al punto giusto, per sottolineare sia il clima di tragedia che l’ineluttabile scorrimento degli eventi fino al terribile finale, che non vi sveliamo.

Un film assolutamente da vedere, un’esperienza cinematografica atipica, che raramente accadrà di poter ripetere; un consiglio allo spettatore: andate a vedere Dogville senza pregiudizi, senza aspettarvi il solito film, senza rifiutare il mezzo con cui Von Trier ha deciso di raccontare la sua storia. Se sarete più disponibili ed umani degli abitanti di Dogville, certo non resterete delusi.


La locandinaTitolo: Dogville (Id.)
Regia: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier
Fotografia: Anthony Dod Mantle
Interpreti: Nicole Kidman, Paul Bettany, Lauren Bacall, Ben Gazzara, Jeremy Davies, Stellan Skarsgård, Udo Kier, Jean-Marc Barr, Blair Brown, Harriet Anderson, Patricia Clarkson, James Caan, Philip Baker Hall, Zeljko Ivanek
Nazionalità: Danimarca, 2003
Durata: 2h. 13′


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Attualmente ci sono 9 commenti a questo articolo:

  1. Anonimo ha detto:

    Del film “Dogville” mi è rimasta una sensazione particolare, scrivo questo commento per condividere quanto penso con chi lo avesse visto. Cercando un aggettivo per descrivere sinteticamente l’opera me ne è venuto in mente uno riferito a qualcosa che in realtà nella stessa opera è mancata, parlo del termine “sobrietà” e mi riferisco principalmente all’atto violento della sessualità, immagino che la scelta del regista in quanto a ciò sia ben definita e chiara quindi mi limito a esprimere questa particolarità.

    Lo scenario del film è scarno come l’animo umano, il tempo lento come l’irrealtà della visione da parte del visitatore esterno: noi o grace. Tutto ciò è già di per sè pienamente completo e complesso, non necessiterebbe di altro il film dal punto di vista descrittivo: ogni cosa che fosse potuta fluire dell’esterno nel set era in forma differente già presente nel paesino. Grande merito del regista quello di aver rinchiuso in Dogville il genere umano ricostruendone i rapporti tra i personaggi nello spazio, con gesti e dialoghi teatrali; e nel tempo, con la voce narrante che accompagna ed esplicita i cambiamenti.

    In quanto ai meccanismi psicologici delle persone di Dogville, rappresentativo e perfetto è a mio avviso il personaggio di Tom, giovane intellettuale alla ricerca di una morale poetica che continuamente lo conduce a fingere a se stesso; fino allo smascheramento da parte di Grace di quel suo lato volgare e animalesco. Come Tom, ogni altro personaggio entrando a contatto con Grace subisce immancabilmente lo stesso percorso, viene svelato di esso la natura meschina e l’inconsistenza sociale: gli abitanti hanno un solo interesse verso la loro misera esistenza, la conservazione del proprio modus vivendi (che sia esso lavoro, poesia…), l’incapacità di saper accettare chi può offrire qualcosa loro e soprattutto l’assoluta e implacabile tendenza ad approfittare del potere quando se ne ha la possibilità. E’ quindi Grace a rivelare questo binomio di obbedienza verso il “forte” e di abuso di potere verso il “debole” che caratterizza quei volti dei personaggi oramai privi di maschera.

    La presenza di Grace è perciò necessaria a descrivere i comportamenti umani degli abitanti del paesino; la vita nel villaggio senza Grace non avrebbe senso perchè sarebbe finta e totale apparenza, quindi noiosa all’osservatore; In poche parole, la ragazza descrive i personaggi tramite le proprie interazioni con essi. Ciò avviene durante quasi tutta la totalità del film. Per questo motivo considero la “vera storia” quella personale e successiva di Grace, perchè è una storia differente, carica di significati e intimo racconto della sua anima.

    Anche lei come gli abitanti del paese viene smascherata, ad opera del gangster, accusata nella sua naturalezza, tolleranza e tendenza al perdono di essere ancor più arrogante e irresponsabile dei cittadini di Dogville. La differenza tra lei e chi le sta attorno è tutta in quelle quelle sue parole finali, in quel pianto incontrollato; lei dice di non essere come gli abitanti del paese, si è tolta la maschera ma al contrario degli altri ha reagito come ” l’uomo” nella sua essenza dovrebbe fare, lei non è puro istinto di conservazione di una Grace che non esiste e della quale deve fingere la presenza; lei (paradossalmente e superficialmente così poco umana rispetto ai cittadini) è in realtà la migliore rappresentazioone dell’uomo nella sua essenza: quella dell’ autocoscienza. Grace ha imparato dalla sua maschera, dai propri errori, ha ascoltato il discorso del gangster, ha compreso soprattutto dagli abitanti di Dogville e ne ha ricavato un sentimento che potesse andare oltre a quella semplice maschera tolta dal suo viso, oltre al puro istinto emotivo. Ha compreso infatti che doveva cambiare lei, non più reagire col perdono alle ingiurie, ma con la giusta dose di arroganza, violenza se fosse stato necessario.

    I personaggi da lei incontrati avevano reagito diversamente, si erano resi conto della loro natura volgare e avevano giocato con essa rimanendo nelle loro posizioni in quel duplice aspetto di potere e dedizione (ad esso). Per Grace è differente; lei è “la protagonista”, vissuta durante il film ed a mio avviso molto più simile a noi di quanto non lo siano gli altri (almeno singolarmente) così chiusi da risultare intangibili più passa il tempo.

    Grace colma di speranza e di affetto per Tom e verso i contadini è Il Cristo che sa amare il prossimo, quel lato divino e ciclico, ricco di slanci e innamoramenti. Grace che compie i gesti finali è il Cristo che si ribella e scaraventa i banchetti per terra perchè è il Cristo umano frutto di esperienze, di storia di sofferenze. Ma Grace è entrambe le cose, non più la seconda della prima. Così, data la sua (riscoperta) natura umana punisce l’amato, ma non per questo è solo uomo, lei è anche Dio, elemento necessario per aver fatto il passo di negare e suparare quella natura umana contenuta nella sua

  2. Alberto Cassani ha detto:

    Sono d’accordo nel dire che l’intento di Von Trier fosse di parlare della natura umana, non tanto di parlare dell’America come invece la stampa ha deciso che volesse fare (ma forse li aveva imbeccati lui, non mi ricordo). E tra l’altro, è evidentemente troppo matura la riflessione che fa qui (ma anche, in maniera meno ovvia, in altri suoi film precedenti) sulla religione e sul rapporto tra l’uomo e la religione perché possa interessare pubblico e critica italiani. Certo “Dogville” non è un film sobrio, anche se è minimalista nella messinscena: è un film ricco e profondo, complesso nella sua struttura quanto lo sono i temi che affronta. Ed è vero che Grace-Gesù riceve qualcosa dagli esseri umani tanto quanto dà a loro, e il senso del film non sta solo nella punizione finale. Ma come disse un amico alla fine della proiezione, se Grace è Gesù Von Trier è Dio, e come al solito ha voluto finire con l’Apocalisse.
    Tra l’altro, a me personalmente non era piaciuta l’idea delle scenografie mancanti, ma hanno permesso al regista di girare in quel modo eccezionale la scena dello stupro, e tanto basta.

  3. Sebastiano ha detto:

    Condivido tutto quanto avete scritto.
    Per quanto riguarda la “questione americana” devo controllare ma mi pare di ricordare che Dogville e’ solo il primo di una trilogia che il regista stesso aveva annunciato “sull’America”. Mi pare. E’ stato realizzato solo il secondo, Manderlay, qui sopra linkato, e il terzo era annunciato come “Washington”, sempre se non sbaglio, che avrebbe trattato il tema del “potere”.

  4. Alberto Cassani ha detto:

    Sì, questo è il terzo capitolo di una trilogia (ma il terzo si chiamerà “Wasington” non “Washington”, se mai verrà girato) ma non so esattamente come Von Trier aveva presentato il progetto. Che i tre film affrontino tre problemi dell’America moderna è fuori di dubbio, ma non sono problemi esclusivamente statunitensi e il modo in cui li affronta li rende universali pur essendo ambientati in tre piccoli paesi tipicamente statunitensi. Ricordo la battuta “io non sono mai stato negli Stati Uniti, ma neanche gli autori di Casablanca erano mai stati in Marocco”, però non so quali parole Von Trier avesse usato per parlare dei suoi film. E in ogni caso, niente vieta ai critici di andare oltre le intenzioni dichiarate dall’autore per analizzare quelle reali…

  5. Marci ha detto:

    Molto particolare, mi ha colpito in particolare il montaggio e l’uso della telecamera.
    Alcune riprese sono davvero strane, con zoom e movimenti di macchina a dir poco particolari.
    Stacchi senza motivo apparente, (anche tra due primi piani praticamente uguali) forse con l’intenzione di rendere più frammentaria l’opera?
    E alcune riprese sembrano quasi uscite da un documentario, o da un servizio giornalistico, più che da un film.

    Bravissima la Kidman. Unico rammarico: avevo letto in una recensione di Manderlay come finiva Dogville 🙁

    PS
    un parere sulle recenti affermazioni di Von Trier?

  6. max ha detto:

    Come al solito i francesi fanno buon viso a cattivo gioco ,cacciano l’antisemta e premiano il suo film,bombardano la Libia e vanno a bracceto con l’Iran.Oramai la versione antisemita di un regista e’ solo il grido di allarme per tutte quelle coscenze che hanno a cuore la liberta’ di espressione e un’analisi seria e approfondita dello stato attuale della nostra democrazia. Chi e’ andato ultimamente negli States si e’ accorto di quanta poca liberta’ hanno gli americani,frustrati,vittime delle loro paure ,una democrazia basata su di un capitalismo cieco e fortemente manipolato dalle lobby ebraiche che stanno spingendo l’America ad un perenne conflitto .Hitler come tanti dittatori fanno parte della storia ,e qualsiasi uomo artista o filosofo puo’ apprezzare o meno le sue gesta ,celarsi sempre dietro ad un antisemitismo con la paura di rievocare fantasmi nazionalisti e’ un esercizio che onestamente ha stufato ,io oggi vedo tanti piccoli Hitler che sognano il potere quanto e piu’ di lui.

  7. Fabrizio ha detto:

    von Trier un pò se l’è cercata, ma non è colpa sua se non appena ha unito insieme le parole io-capisco-Hitler gli hanno subito dato del nazista deliranate senza neanche preoccuparsi di capire cosa stesse cercando di dire. Secondo me la sua era una semplice riflessione sulla psicologia di Hitler, mica un elogio all’Olocausto. Viva l’ipocrisia.

  8. Alberto Cassani ha detto:

    L’anno scorso era successa la stessa cosa negli Stati Uniti a Oliver Stone quando aveva presentato il suo progetto di due documentari su Hitler e Stalin. Sicuramente c’è sempre troppo isterismo, quando si parla di questi argomenti, ma in generale Von Trier non è la persona più indicata a fare certi discorsi ed essere preso sul serio… Mi pare sia stato El Mundo a scrivere che probabilmente era sotto l’effetto di psicofarmaci, al momento della conferenza stampa…

    Max, io ho vissuto un anno negli Stati Uniti e mi sono trovato benissimo, però era la metà degli anni ’90. L’ultima volta che ci sono stato è stato per una settimana di vacanza nel 2002, quindi è anche possibile che le cose siano molto peggiorate. Però sono d’accordo su ciò che ha fatto l’organizzazione di Cannes: chiedere a Von Trier di andare a casa serve più che altro a proteggere lui e il festival, prevedendo aspre polemiche, non a condannare le sue dichiarazioni. Tant’è che il ban valeva solo per questa edizione. Il premio al film – o meglio: alla Dunst – è indipendente dall’organizzazione: è la giuria ad assegnare i premi, e in questo caso in realtà hanno dimostrato buona serietà valutando il film senza farsi distrarre dalle polemiche che l’avevano circondato. A meno che non l’abbiano premiato per paraculaggine, nel qual caso ritiro i miei complimenti.

  9. Plissken ha detto:

    A me il film è piaciuto parecchio, ed ho trovato tutto sommato geniale l’ambientazione “teatrale” unita alla tecnica cinematografica. La cosa per me davvero curiosa è che il finale, che ho apprezzato moltissimo in virtù di un elementare desiderio di rivalsa nei confronti dei “carnefici”, sia al tempo stesso un punto di forza ed il punto più debole.
    Intendo, non avendo ahimè sinceramente colto il nesso con il Cristo (che per me si era fermato ad Aronofsky) la catarsi avvenuta mediante il grande James Caan mi è parsa un po’ una soluzione al limite del ruffiano, quasi a voler gratificare un pubblico oramai immedesimato con la protagonista (grande merito del film) e pronto a quello che sembrava un triste ed inevitabile epilogo; pubblico uscito dalla sala con l’impressione che alla fin fine se non il Cristo un’ipotetica trinità composta da Clint, Smith & Wesson vegli pronta ad intervenire per castigare soprusi e torti subiti dall’altrui “natura umana”.

    Per quel che so della natura umana annessi e connessi, non è così che funziona purtroppo…

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