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Manhunter di Michael Mann

28 aprile 2004 Recensioni 2 Commenti
Manhunter - Frammenti di un omicidio

FilmAuro, 27 Marzo 1987 – Fitto

Un agente dell’FBI è andato in congedo dopo la cattura dell’antropofago dottor Lektor. Un collega cerca però di farlo tornare al lavoro per dare la caccia ad un nuovo assassino, soprannominato “Tooth Fairy”…


Prima che Antony Hopkins diventasse un’icona con Hannibal Lecter, prima di Jonathan Demme e di Jodie Foster, prima del Silenzio degli innocenti e di Hannibal, prima di tutto c’era Red Dragon, romanzo thriller da cui Dino De Laurentiis decise, nel 1985, di trarre un film.

Michael Mann, quando il produttore gli propone la regia, era all’apice del successo di Miami Vice, serie-simbolo degli anni ’80 di cui era la mente. Aveva girato anche Strade violente, noir con James Caan, che era rimasto forse insoluto, confinato nel cinema di genere. All’altezza di Manhunter si può forse piazzare il primo paletto, il punto di svolta nella carriera del regista. Osservando tra le pieghe della storia, oltrepassando le convenzioni del genere, si scorgono già alcune delle tematiche e degli stilemi dell’autore di Heat. Il modo di ritrarre il personaggio principale, lo scontro tutto interiore tra l’estrema competenza e il travaglio personale, ma anche certe scelte di regia, vanno ad incanalarsi perfettamente nel percorso artistico di una delle personalità più dense e rilevanti della Hollywood contemporanea.

Per forza di cose, la meccanica narrativa non è dissimile dal canovaccio tipico del genere: omicidi, indagini e indizi fino alla risoluzione finale. Ciò che fa la fortuna di un film così (si pensi proprio a Il silenzio degli innocenti o al successivo Seven, per rimanere al cinema americano) è l’atmosfera, la forza dei personaggi o l’ispirazione del regista: Manhunter sembra non aver avuto particolare fortuna in questo senso, eppure le premesse c’erano (e ci sono) tutte. Mann ha trasformato l’indagine di Graham in una ricerca ambigua di senso, tracciando una linea che permette di congiungere l’universo diegetico con la suggestione metalinguistica.

Guardare ed essere guardati, questa è la cifra di Manhunter: non a caso spesso ci sono in campo superfici che rimandano all’atto visivo. Finestre e porte, che segnano il confine fra lo spazio sicuro (quelle delle case delle vittime) e il pericolo incombente al di fuori (l’assassino che guarda insistentemente le vittime prima di entrare in azione). Ma anche sistemi più complessi: fotografie e videoregistrazioni, che sono un significante trasposto delle uccisioni, del disegno del killer. Il tutto ripetuto ed elevato al quadrato, visto che i due poli della visione sono Tooth Fairy e Will Graham, i quali sovente stabiliscono un filo comunicativo proprio attraverso le immagini, che ci consentono di entrare nella sfera visiva ora dell’uno, ora dell’altro.

Non si tratta unicamente di una coppia oppositiva: un terzo polo, distanziato, è rappresentato dal Dottor Lektor. Nel Silenzio degli innocenti lo sbilanciamento sarà rovesciato, fino a far diventare preponderante il rapporto di Clarice con Lecter rispetto a quello con il killer. In Manhunter il profilo del geniale psichiatra viene tenuto sullo sfondo, ma è ugualmente fondamentale per il travaglio di Graham: un rapporto da pari a pari, sempre sul filo della competizione (i due si stuzzicano di continuo durante il colloquio). Benché la sua presenza si avverta spesso, metonimia del passato di Will, i confini della presenza di Lektor sono ben saldi. La prigione, la telefonata. È con l’assassino che Mann costruisce l’interscambio (la scelta più naturale, almeno fino al Silenzio degli innocenti), servendosi, come detto, delle superfici.
Quando Graham scopre l’indizio decisivo la sua attenzione paradossalmente si distoglie, opponendo un anti-climax personale al climax narrativo che si avvia al suo culmine. Graham guarda fuori da una finestra, tocca la superficie del vetro perché finalmente il contatto è stabilito. Ora i suoi sono veramente eyes wide shut, sospesi nell’epifania prima che la caccia giunga al suo inevitabile epilogo. E proprio la regia di Mann sottolineerà questo scarto facendosi intrusiva, moltiplicando le macchine da presa, ognuna a velocità diversa, che frammentano e intaccano lo schema di superfici creato lungo tutto il film.

Mann riesce insomma ad intervenire sulla narrazione siglando il film in ogni sua parte: dapprima saturando l’orizzonte visivo senza sottrarsi (e anzi con convinzione) alla connotazione che noi chiamiamo oggi “anni ’80”, e in seguito nobilitando la risoluzione finale. Anche con l’aiuto di Dante Spinotti, qui all’esordio come direttore della fotografia per Mann, che avvierà un lungo e felice sodalizio con il regista. Nulla di ciò si ritrova nel recentissimo remake Red Dragon, che ha probabilmente un solo motivo di esistere: chiudere il ciclo di Lecter restituendogli il nome e il volto che sono entrati nel mito contemporaneo. Poco importa se per farlo occorre stirare l’anziana faccia di Hopkins e narrare una storia già raccontata.


Titolo: Manhunter – Frammenti di un omicidio (Manhunter)
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Michael Mann
Fotografia: Dante Spinotti
Interpreti: William Petersen, Tom Noonan, Kim Greist, Brian Cox, Joan Allen, Dennis Farina, Stephen Lang, David Seaman, Benjamin Hendrickson, Michael Talbott, Dan Butler, Michele Shay, Robin Moseley, Paul Perri, Patricia Charbonneau
Nazionalità: USA, 1986
Durata: 1h. 58′


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Attualmente ci sono 2 commenti a questo articolo:

  1. Donato ha detto:

    Grande film. Uno dei miei preferiti. In assoluto.

    Il poliziotto che cerca di immedesimarsi nel serial killer e di comprenderne le fantasie devianti ed il modus operandi, sviluppa una vera e propria ossessione che lo porta a sembrare psicotico quasi quanto lo psicopatico a cui sta dando la caccia. Emblematico il modo in cui il collega dell’FBI (Dennis Farina) lo guarda (tra lo stupito e il preoccupato) nel momento clou in cui lui, ragionando e riflettendo ad alta voce, Graham perviene all’intuizione chiave che consente di dare la svolta definitiva alle indagini…

    Film d’atmosfera, con una sceneggiatura solida, buoni dialoghi, bravi interpreti, un’eccellente fotografia, una regia sobria e ben calibrata, ottima colonna sonora ed alcune sequenze da antologia (come quella della tigre e la scena finale).

    Per inciso, anche io considero il remake “Red Dragon” come un’autentica porcheria, che ha deturpato e involgarito una storia che era stata già raccontata in maniera impeccabile nel film di Man.

  2. Riccardo ha detto:

    ovvio che non si può fare paragoni fra il film di mann e il remake ma anche red dragon lo considero un buon film solido e d’atmosfera.

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