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Soundtrack: "Prometheus" di Marc Streitenfeld

16 luglio 2012 Soundtrack 0 Commenti
Prometheus

Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore* * *

Allievo di Hans Zimmer, il tedesco Marc Streitenfeld compone per il ritorno alla fantascienza di Ridley Scott una partitura non originalissima ma fortemente tecnologica e realizzata in maniera particolare. Due brani sono inoltre realizzati da Harry Gregson-Williams, altro allievo di Zimmer…


Si può scegliere tra due percorsi, per un’analisi di quest’ultima partitura al servizio di un film di Ridley Scott (e un discorso analogo, pur con qualche distinguo, si potrebbe svolgere per la filmografia del fratello Tony). Il primo riguarda la sostanza stessa del cinema dell’autore di Alien, Blade Runner e Hannibal: che è un cinema fatto, pensato, rappresentato intorno al concetto centrale di “luce”. Luce come elemento drammaturgico, epico, narrativo, luce come cuore pulsante di una visione metafisica dell’universo, luce che si differenzia per generi, occasioni e atmosfere ma che rimane sempre il soffio vitale e visionario dello sguardo. Tutto, in Ridley Scott, afferisce alla luce, musica compresa. La musica deve divenire parte della luce, modellarsi e interagire su di e con essa (i chiaroscuri di Zimmer in Hannibal, il suo esotismo techno e translucido in Black Rain, la sua tragica solarità in Il Gladiatore, lo sfavillante onirismo delle tastiere di Vangelis in Blade Runner e i suoi spiazzanti anacronismi in 1492: la conquista del Paradiso, gli incubi dissonanti e nerissimi di Goldsmith in Alien e rutilanti di fantasy in Legend, e così via).
L’altro percorso, più storicistico ma non del tutto slegato dal primo, può seguire la linea nettamente involutiva che la scelta dei collaboratori musicali di Scott ha seguito negli anni: collaboratori cui in fondo il regista non ha mai chiesto altro che di uniformarsi allo “sguardo”, alla “luce”, con qualsiasi mezzo tecnico essi ritenessero utile e senza preoccuparsi troppo della intrinseca qualità della musica. Questo atteggiamento molto autoriale e utilitaristico ha portato almeno dall’inizio degli anni 2000 gli Scott (Tony, negli ultimi film, in modo assai più radicale e fidelizzato nel suo tandem con Harry Gregson-Williams) ad avvalersi dei servigi dapprima di Hans Zimmer nel periodo in cui il compositore inglese era al massimo della propria forma e della propria vulcanica ispirazione epico-classico-hitech, e poi di tutto l’affollato parco-allievi ed epigoni di cui Zimmer si è circondato, da Gregson-Williams appunto (l’unico che in alcuni frangenti, si veda Nemico pubblico o Man on Fire di Tony, ha superato il maestro) a Steve Jablonsky, da Trevor Rabin a Marc Streitenfeld.
Di questa pattuglia, il giovane bavarese Streitenfeld è l’ultimo arrivato ma ciononostante già blasonato da alcune fatiche, peraltro sotto diversi stili, collegate al cinema di Ridley Scott, dal “noir” American Gangster alla commedia sentimental-rurale Un’Ottima Annata, dalla spy-story attualizzata Nessuna verità sino al tardo-epico Robin Hood, magari passando anche per l’op. 2 da regista di un altro Scott, il videoclipparo Jake (figlio di Ridley), ossia Welcome to the Rileys. Sulle orme di Zimmer, di cui Streitenfeld è stato assistente e attentissimo allievo, il compositore di Monaco si muove lungo una linea di base rigorosamente classica ed europea, sostanzialmente e sontuosamente sinfonica, dalle intelaiature armoniche possenti e postwagneriane, con frasi lunghe, strumentazione poderosa, colori solenni e spesso funebreggianti; ingredienti cui si aggiunge un utilizzo spregiudicato, a tratti massiccio e dispendioso, dell’elettronica, sempre in funzione di rinforzo, di accrescimento quantitativo del suono, raramente in quella di una sua diversificazione espressiva o (si veda a contrasto l’incredibile, monumentale lavoro compiuto da Zimmer per Inception di Nolan) di una più complessa e immanente “scenografia” musicale.

Chiamato alla quinta collaborazione con Ridley, e alla non banale impresa di dare veste musicale al suo attesissimo – da 33 anni – prequel di Alien (con cui Jerry Goldsmith aveva toccato uno dei propri inarrivabili vertici di modernità e suggestione), che approderà sui nostri schermi solo in autunno grazie all’ottusità dei meccanismi distributivi italiani, Streitenfeld ha preso la strada di uno score fortemente tecnologico, a tratti puramente da “sound effects”, tematicamente generico ma architettonicamente incombente, elaborato assai più sul fronte degli assemblaggi di fonti sonore che su quello della drammaturgia musicale. Ne fa fede la particolare tecnica utilizzata, anche e soprattutto a livello di montaggio del suono: infatti le vaste e impegnative sessioni orchestrali con 90 elementi, svoltesi negli studi di Abbey Road, si sono basate su idee musicali concepite da Streitenfeld in sede di sceneggiatura, poi scritte ed eseguite dall’orchestra “a ritroso” (es. invece di do-re-mi, mi-re-do) ed infine nuovamente rovesciate in corso di registrazione digitale. Un metodo piuttosto laborioso e contorto, ma che, insieme alla fusione totale tra suono orchestrale e suono elettronico, ha conferito indubbiamente allo score quel sapore di misticismo “alieno”, straniato e di allarmante attesa dell’ignoto che era negli intenti di compositore e regista.
La componente drammaturgica sembra più garantita da un tematismo corrucciato e ombroso, ulteriormente incupito dai colori decisamente tenebrosi del trattamento orchestrale. Se di un Leitmotiv vogliamo parlare, lo troviamo nella movenza iniziale di “A Planet”: sullo sfondo di un tremolo degli archi, i corni alzano un semplice richiamo, ripreso poi dal corno inglese, mentre sempre gli archi iniziano un disegno iterato di tre note vicine, simile a un esitante ondeggiare. Lo sviluppo è sontuoso, timbricamente affascinante, armonicamente elementare. Riascolteremo continuamente, spesso intimamente connesse (“Small beginnings”), queste due idee: ma soprattutto quel disegnino quasi infantile, ipnotizzante, ripetitivo, a cominciare da “Going in”, che esibisce immediatamente la carta del patchwork electro-orchestrale fra riverberi, distorsioni degli ottoni e un accentuato “rumorismo” scenografico (“Engineers”), per arrivare alla fisionomia di un vero e proprio motto compulsivo, inquietante e minaccioso (“David”). Il sound design di Streitenfeld è radicale e contaminatorio, invasivo, ma anche piuttosto prevedibile, cionondimeno efficacissimo nella propria mancanza di compromessi, evidente in track come “Hammerpede”, dalla pura ed estremizzata ostentazione effettistica.
Si crea così un contrasto piuttosto vistoso con i due track a firma di Gregson-Williams, qui in veste di compositore “ospite”, quasi di guest star. “Life” è brano dichiaratamente williamsiano (ma nel senso di John…), a cominciare dall’esposizione iniziale in pianissimo e in registro sovracuto di un tema del corno, una bella e pensosa frase ripresa poi dai celli, sospinta dai violini e sostenuta da un’apertura corale in un crescendo imponente. “We were right” è pagina di una raffinata sospensione emotiva, dove il tema precedente (che a questo punto si staglia come il vero Leitmotiv della partitura) è riesposto dal corno su un trasparente, impressionistico tessuto di archi e di legni e poi ripreso dal pastoso suono dei celli.

Il contributo di Gregson-Williams è assorbito dallo stesso Streitenfeld, a livello di nucleo elementare, nella stupefazione strumentale di “Earth”, squarcio di sound “spaziale” dalle fortissime suggestioni evocative e dalla costruzione sapiente, che consente al compositore di utilizzare al meglio secondo la propria vocazione i mezzi orchestrali di cui dispone, ossia per fasce sovrapposte e crescenti, piuttosto che per esplosioni episodiche e isolate di violenza sonora. Anche perché col procedere dell’ascolto appare evidente che Streitenfeld delega al suono elettronico i momenti di pura “action music”, con pulsazioni rombanti, colpi di frusta, ottoni e archi torturati a sostegno (“Infected”, “Debris”), lasciando invece che la massa dell’orchestra (impegnata, ricordiamolo, secondo la bizzarra tecnica esecutiva “all’indietro” già descritta) si incarichi dei momenti di maggior tensione e sospensione (i flautandi siderali, ultraterreni dei violini in “Weyland”).

La dipendenza del musicista dall’universo zimmeriano è palese, e nemmeno per un istante dissimulata: manca però a Streitenfeld quel taglio epico-tragico, immanente e scultoreo, nella definizione dei rapporti armonici e soprattutto appare irrisolta la ricerca di una vena lirica, di un pathos interiore, pure costantemente inseguiti ma spesso limitati a invenzioni scarne e modulazioni maggiore-minore senza meta. Per contro, alcuni momenti di pura avanguardia sonora e strumentale (“Hello Mommy”) appaiono del tutto estranei al modello del compositore inglese, e attestano viceversa in Streitenfeld un ricercatore piuttosto instancabile e coraggioso, che sembra guardare direttamente a quella che fu proprio la grande lezione di modernità di Goldsmith. E c’è un momento da brivido, per l’appunto nel segno dell’omaggio dichiarato al maestro californiano, allorché in “Friend from the past” spetta agli archi, fantasmatici e irreali come non mai (qui si apprezza a pieno la tecnica esecutiva adottata) citare l’originario, memorabile e fluttuante tema goldsmithiano di Alien. Streitenfeld sembra così declinare un debito formativo e culturale che va oltre le esperienze sin qui acquisite, e che pone sotto luce diversa anche il riproporsi dei suoi due temi principali, quasi congelati e decantati in “Dazzed” attraverso una rarefazione terrificante, o luminosamente e grandiosamente enfatizzati da ottoni e coro in “Space Jockey”, o ancora (e parliamo soprattutto del primo, ampio e disteso tema) accoratamente ripresi dagli archi in “Collision”.
“Invitation” sembra voler ricapitolare un po’ al ribasso (ancora una volta sono la modestia delle elaborazioni contrappuntistiche e la mancanza di un guizzo melodico originale a minare il risultato) la visione mistico-lirica della partitura mentre “Birth” ci congeda con un’ultima, luciferina esposizione del breve, saettante “motto” di tre note e un finale, agghiacciante crescendo a effetto.

La grande disponibilità di mezzi, tecnologici e strumentali, solletica sicuramente in un compositore come Streitenfeld una vena esibizionistica e apocalittico-esoterica che attraversa tutta la pattuglia di musicisti cui egli appartiene; c’è però in sottotraccia un talento di sperimentatore e di assemblatore di fonti che speriamo il compositore abbia ulteriore modo di approfondire in occasioni meno “di cartello” e di genere diverso (sua anche, insieme a questa, la partitura per lo stravagante horrorfantasy-storico Abraham Lincoln, Vampire Hunter prodotto da Tim Burton e diretto dal kazako Timur Bekmambetov), per portare alla luce un talento eclettico e classico che sicuramente è parte integrante del suo DNA.


La copertina del CDTitolo: Prometheus (Id.)

Compositore: Marc Streitenfeld, Harry Gregson-Williams

Etichetta: Sony Masterworks, 2012

Numero dei brani: 25

Durata: 56′ 55”


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