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"Happy Feet" di George Miller

23 novembre 2006 Recensioni 8 Commenti
Alberto Cassani, 23 Novembre 2006: Notevole
Warner, 1 Dicembre 2006

Per il Pinguino Imperatore il canto è tutto, ma il loro piccolo Mambo è un pessimo cantante, anche se è un ottimo ballerino. E’ talmente scarso da essere scacciato con ignominia dalla comunità. Si unisce allora ad un gruppo di Pinguini di Adelia per capire cosa davvero tiene i pesci lontani dal territorio degli Imperatori…


Negli Stati Uniti hanno l’abitudine – curiosa, per noi che osserviamo da fuori – di sfruttare fino all’osso qualunque idea si dimostri cinematograficamente efficace. Così ci troviamo spesso di fronte a due film estremamente simili realizzati uno in rincorsa dell’altro (l’ultimo caso è quello di The PrestigeThe Illusionist, ma gli esempi sono infiniti). Quando il documentario di Luc Jacquet La Marcia dei Pinguini superò i 100 milioni di incasso negli Stati Uniti, Hollywood cominciò a guardare con interesse gli abitanti dell’Antartico. Quando, pochi mesi dopo, i pinguini si rivelarono la cosa migliore di Madagascar, Holywood scoprì il potenziale comico di questi animali e decise di sfruttarlo fino all’osso. Così, eccoli giocare a curling in Uno zoo in fuga e fare surf nel prossimo Surf’s Up. E soprattutto, ecco gli Imperatori di Jacquet presi in giro nello straight-to-video Farce of the Penguins e in questo Happy Feet.

Diretto dal regista di Mad Max (ma anche sceneggiatore di Babe – Maialino coraggioso), Happy Feet è un cartone digitale dalla qualità tecnica straordinaria, probabilmente la più alta che abbiamo mai avuto modo di vedere al cinema. Mescolando secondo le necessità immagini reali con personaggi disegnati, il film racconta un storia piuttosto labile ma comunque mai noiosa, riempita da una lunga serie di canzoni pop e disco degli anni ’70 e ’80 ottimamente eseguite dal cast originale. Canzoni che molto probabilmente risulteranno indigeste ai bambini, non in grado di seguire il testo in inglese e non familiari con le versioni originali, ma che faranno sorridere più di una volta gli spettatori adulti.

Il messaggio ecologista che si sprigiona nella seconda parte della pellicola è forse espresso in maniera troppo forte, ma non è comunque fastidioso e il cambiamento di tono e intenti non sembra mai posticcio. In effetti, quando Mambo scopre la vera ragione della carestia la pellicola si fa tristissima, e questo finisce per aumentare notevolmente l’efficacia di quanto regista e sceneggiatori vogliono esprimere. Il rischio, però, è di alienarsi ancor di più il pubblico infantile, che molto difficilmente potrà apprezzare la cosa, soprattutto senza una guida adulta in grado di spiegargliela. Ma forse è proprio questo il punto, perché se è vero che il film lo vorranno vedere i bambini, è pur vero che i biglietti li comprano gli adulti. E allora questo è il modo giusto per dire certe cose.


Titolo: Happy Feet (Id.)
Regia: George Miller
Sceneggiatura: George Miller, John Collee, Judy Morris, Warren Coleman
Doppiatori: Stefano Crescentini, Massimo Lopez, Massimo Corvo, Roberto Pedicini, Domitilla D’Amico, Rodolfo Bianchi, Ruggero Valli, Angelica Bonacini, Giò-Giò Rapattoni, Aurora Cancian, Sonia Scotti
Nazionalità: USA, 2006
Durata: 1h. 48′


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Attualmente ci sono 8 commenti a questo articolo:

  1. Marco ha detto:

    Albe il seguito lo hai visto? Questo non lo visto ma secondo me il secondo è stato troppo concepito “ad arte”, come se si dovesse fare un altro film per forza per sfruttare il brand, cosa che si è rivelata un flop dato che solo per poco ha recuperato i costi di produzione e ha portato alla chiusura della casa di produzione.
    Il film comunque non è niente di speciale e la morale è vista e risaputa. Solo la grafica è molto buona ma ormai questo non fa più testo dato i livelli raggiunti oggigiorno in fatto di CGI.

    Che tu sappia la ImageMovers di Zemeckis, che ha chiuso l’anno scorso per il grande flop di “Milo Su Marte” ha trovato appoggio con qualche altra casa?

  2. Alberto Cassani ha detto:

    Il seguito non l’ho visto, comunque la cifra che è stata indicata dalla stampa (ma non dichiarata ufficialmente dai produttori) per il suo costo mi sembra esagerata. Un seguito di un film animato ha un costo di partenza molto basso, perché tutto il lavoro di creazione dei personaggi ed eventualmente di acquisizione e/o creazione dei software necessari è già stato fatto. E’ per questo che vengono fatti spesso sequel animati per altri versi assolutamente immotivati: perché sono praticamente a costo zero. Non vedo dove possano essere saltati fuori 30 milioni di dollari di spesa in più rispetto al primo capitolo. E non mi risulta che la Warner Bros e la Village Roadshow, che hanno prodotto il film, siano fallite…

    Riguardo la ImageMovers, neanche questa è fallita, ha anzi un contratto in essere con la Universal. Ad essere stata chiusa è la ImageMovers Digital, che era una controllata della Disney e che ha realizzato solo “A Christmas Carol” e appunto “Milo su Marte”. Tutti gli altri film, da “Le verità nascoste” al più recente “Real Steel”, sono stati realizzati dalla ImageMovers propriamente detta. Ma IM e IM Digital erano due società distinte e indipendenti tra loro.

  3. Marco ha detto:

    Forse una buona parte del budget è andata ai doppiatori che, come succede spesso nei film animati, nella versione originale al doppiaggio ci sono vere e proprio star del cinema.
    Non intendevo che la Warner e la Village sono fallite, quelle penso lo abbiano distribuito il film, a produrlo era la società di Miller, la DR. D Studios, e so che ha provocato dei licenziamenti come scritto qui: http://www.mymovies.it/biz/news/76972/#provoca.
    Rileggendo bene però l’articolo dice solo che hanno licenziato del personale e non che è stata chiusa, mea culpa.

    Non sapevo che ci fosse questa differenza fra la IM e IM Digital, grazie per la delucidazione. Un pò come la DreamWorks e la DreamWorks Animation no?

  4. Alberto Cassani ha detto:

    Aspetta, al di là della situazione specifica (non conosco né la situazione della Dr D né tantomeno quella del mercato del lavoro australiano) chiariamo un concetto: nel mondo anglosassone il produttore e il finanziatore sono due entità distinte. In particolare le piccole case indipendenti hanno contratti di esclusiva con i grandi Studio che quindi finanziano i loro progetti in cambio di una parte dei profitti e i diritti di distribuzione. I film prodotti dalla Malpaso non li paga Clint Eastwood: li paga la Warner; quelli della Bad Robot non li paga JJ Abrams, ma la Paramaount. Vedi questo tipo di produttore come un’azienda edile che costruisce un condominio dopo aver già venduto tutti gli appartamenti sulla base del progetto. A questo si aggiunge il fatto che neppure gli Studio hollywoodiani finanziano i film coi propri soldi, preferendo usare quelli delle banche, ma questo è un altro discorso. Nello specifico di HF2, la Dr D ha realizzato il film insieme con l’altra società di produzione di George Miller con i soldi di Warner e Village Roadshow, che quindi sono a tutti gli effetti produttori e quindi proprietari del film e che in cambio del finanziamento si sono assicurati anche i diritti di distribuzione internazionale della pellicola.

  5. Marco ha detto:

    Urca mi stai aprendo un mondo, io pensavo che fosse molto più semplice il mercato dell’industria cinematografica, cioè un produttore che investe (e che quindi paga tutti gli addetti ai lavori) e una casa che distribuisce il film.
    Quindi quando la Pixar ancora non era della Duisney, quest’ultima prendeva solo una percentuale sulla distribuzione giusto? Tutto il resto andava alla Pixar che aveva investito nel progetto?
    Anche alla DreanWorks Animation il profitto va tutto a loro?
    Funziona così anche in Italia che tu sappia?

  6. Alberto Cassani ha detto:

    Dipende da situazione a situazione, dai dettagli dei vari contratti. Ma in genere il finanziamento arriva più o meno interamente dallo Studio, poi i guadagni vengono divisi a seconda del singolo progetto. Può benissimo esserci un contratto per cui lo Studio paga un tot alla casa di produzione e questo tot deve coprire le spese di produzione e il guadagno dei produttori (come si fa nella nostra Tv), tutto quello che poi entra lo incassa lo Studio. Come un pittore che fa un quadro su commissione e il committente poi lo rivende.
    La Pixar se ricordo bene aveva con la Disney un contratto di distribuzione esclusiva, non di produzione, quindi finanziava autonomamente i propri film e li dava obbligatoriamente alla Disney perché questa li distribuisse in tutto il mondo (quindi la Disney guadagnava la fetta del distributore e basta, ma non aveva rischi economici sulla produzione). La Dreamworks Animation da quello che ho capito ha proprio questo tipo di contratto, mentre la Dreamworks vera è propria è di proprietà della Paramount. In genere, comunque, una produzione indipendente è davvero indipendente, se c’è uno Studio di mezzo è per finanziare il film, non (solo) per distribuirlo.
    In Italia le cose sono più semplici, il produttore e il finanziatore sono spesso la stessa persona (anche se non necessariamente i soldi usati sono i suoi), anche se da qualche anno a questa parte i piccoli distributori (Cattleya e Fandango, per fare due nomi) operano insieme ai grandi (01 e Medusa) cofinanziando il film e assicurando una distribuzione di primo piano. Ma non ho idea di che tipo di contratti ci siano, in questi casi.

  7. Marco ha detto:

    Grazie molte per l’esaustiva risposta.

  8. Alberto Cassani ha detto:

    Nessun problema.

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