"Il Cane Giallo della Mongolia" di Byambasuren Davaa
Bim, 28 Aprile 2006 – Meraviglioso
Tanto tempo fa, la figlia di un uomo ricco si ammalò gravemente. Un saggio disse: «Il vostro cane giallo è malevolo. Uccidetelo». Il padre preferì nasconderlo, ma quando il cane scomparve la figlia si riprese. In realtà si era innamorata di un giovane che a causa del cane non poteva incontrare…
La favola del cane giallo, tipico esempio di tradizione mongola, è la storia su cui si basa il film della regista Byambasuren Davaa. Dopo La storia del cammello che piange, ecco un altro capolavoro intellettuale che ci accompagna in una cultura altra, diversa da quella occidentale cui siamo abituati. Il Cane Giallo della Mongolia non è solo un film, ma molto di più. Un documentario eccezionale sulla vita di una famiglia nomade, i Batchuluun, che vive nell’angolo remoto di una steppa infinita nel nordovest della Mongolia. Un padre che lavora sodo, una madre che si occupa dei campi e dei lavori domestici e tre figli, due splendide bambine e un piccolo ragazzino testardo di un paio d’anni. La protagonista, Nansal, è la figlia maggiore, di soli sei anni.
Ciò che di eccezionale c’è nel film è che tutto è osservato con gli occhi di un bambino, e come un bambino lo spettatore osserva quei campi lunghi che la regista ci offre per scorgere un paesaggio splendido, naturale, vero. È come vivere un magnifico viaggio con la famiglia Batchuluun, per impararne tradizioni e abitudini, credenze e valori. La scena d’apertura del film ci introduce appieno nel mondo che andremo a esplorare. Nansa e suo padre salgono su un monte, il cielo terso. Uno spazio vuoto tra cielo e terra, vita e morte (o meglio, non-morte) in cui i due protagonisti vanno a sostare. Un cane è appena morto e sono lì per seppellirlo. Allora Nansa chiede al padre «Perché gli sistemi la coda sotto la testa?». «Perché così potrà rinascere uomo con la treccia, non cane con la coda».
Il Cane Giallo della Mongolia commuove, appassiona, affascina. Non è solo un documentario ma neanche solo un film. La famiglia è reale e la loro vita si svolge davvero nei posti che osserviamo furtivamente sullo schermo nella sala buia. È la loro vita di tutti i giorni messa in mostra davanti a un obiettivo che li scruta, li studia senza essere indiscreto. È una finestra sul loro mondo, sulla loro vita e sulla loro anima.
Titolo: Il Cane Giallo della Mongolia (Die Höhle des gelben Hundes)
Regia: Byambasuren Davaa
Sceneggiatura: Byambasuren Davaa
Fotografia: Daniel Schönauer
Interpreti: Nansal Batchuluun, Batchuluun Urjindorj, Buyandulam Daramdadi, Nansalmaa Batchuluun, Babbayar Batchuluun, Tserenpuntsag Ish, Scharav Sumiya, Battur Lhamsuren
Nazionalità: Germania, 2005
Durata: 1h. 33′
Questo mi manca, pero’ ho visto “Il matrimonio di Tuya” e lo ricordo come film interessante.
Se posso suggerirlo, visto la recensione di questo…
“Il matrimonio di Tuya” secondo me non era gran che…
In effetti, tra i vari titoli visti all’epoca, “Il matrimonio di Tuya” non lo proposi per il cineforum di cui curo la programmazione.
Pero’ mi sembra comunque interessante e ricambiavo il suggerimento di Tania.
Bellissimo. Ho visto che non è molto considerato in altri lidi, ma è un film(documentario?favola?) che ha un effetto non comune : è disintossicante.
Concordo con la (bella) recensione, il film scorre con estrema “delicatezza” e ci rende edotti su realtà che ci appaiono perfino astratte tanto sono lontane dal nostro vivere, altro che “globalizzazione”.
Sicuramente palese appunto come quest’opera si ponga a metà tra documentario e film e come in molti casi riesca a travalicarne la canonica definizione.
Per quanto non esente da qualche difetto (la regista gioca consapevolmente sul fascino dei grandi spazi aperti incontaminati per arruffianarsi noi occidentali in quanto orfani o gioca sempre in buona fede?) il film credo sia da guardarsi sicuramente, magari a “mente libera” cercando di immeggersi nel paesaggio “splendido, naturale, vero” usando metri di giudizio necessariamente diversi dal solito: gli attori sono dei non-attori, la trama c’è e non c’è, viene più percepita che vista.