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Soundtrack: "The Impossible" di Fernando Velázquez

6 maggio 2013 Soundtrack 0 Commenti
Roberto Pugliese, 12 Marzo 2013: * * * *
In collaborazione con Colonne Sonore

Esponente di quella “giovane scuola” spagnola che si sta rapidamente affiancando alla generazione degli ormai ultracinquantenni, Velázquez torna a collaborare con il regista di The Orphanage e realizza una composizione tradizionale, quasi antica…


L’elemento che maggiormente stupisce nei compositori per film della cosiddetta “giovane scuola” spagnola, intendendosi comunque per “giovane” gente che viaggia fra i 30 e i 40 (con alcune eccezioni: il 28enne Lucas Vidal), e che si sta rapidamente affiancando alla generazione degli ultracinquantenni come Javier Navarrete, Alberto Iglesias e Carles Cases, è l’impianto graniticamente “classico”, accademico, orchestrale, sinfonicamente “tradizionale” eppure costantemente rivissuto e rivisitato, delle loro partiture.
Non è crediamo un caso (si pensi solo all’esempio di Roque Baños, la cui ultima, terrificante partitura per il remake di La Casa ha letteralmente dell'”inaudito”) che tutti questi artisti pratichino parallelamente e continuativamente l’attività concertistica e sinfonica “pura” accanto alla musica cinematografica. E nemmeno è un caso che quasi tutti loro si siano segnalati e si dimostrino versati particolarmente nel genere horror: genere che da anni ormai vive nei paesi di lingua spagnola una “renaissance” almeno pari a quella proveniente dall’Estremo Oriente e che evidentemente, nell’estrema libertà formale e nella continua necessità di inventare soluzioni nuove, offre ai compositori occasioni preziose e irripetibili di sperimentazione, di innovazione, di sviluppo dei propri mezzi e delle proprie poetiche.

Non fa eccezione il 36enne Velázquez, concertista, violoncellista e direttore d’orchestra affermato, attivo dalla fine degli anni 90 e ben noto per le telluriche, imprevedibili partiture di horror estremi come The Orphanage, Shiver, Julia’s Eyes, Devil e La madre: score quasi tutti, fortunatamente, documentati su disco. In presenza di un talento così spiccato, personale e irrefrenabile ci si affanna spesso a cercare punti di riferimento e presunti collegamenti con modelli del passato: nel caso di Velázquez si sono tirati in ballo Bernard Herrmann (il vecchio Benny da qualche parte se la riderà di gusto per tutte le volte che viene tirato per la giacca…) e James Newton Howard; potremmo tranquillamente aggiungere anche Ennio Morricone e Alan Silvestri, ma la sterile compilazione di una serie di ipotetiche fonti non esaurirebbe comunque l’originalità e il profilo di questo compositore che, come molti suoi colleghi compatrioti, si colloca nel solco della cosiddetta “tradizione” sforzandosi continuamente di vivificarla e riplasmarla dal suo interno.

Il brano d’apertura del CD, i Main Titles, non potrebbe essere più esemplare. Pare di stare su un altro pianeta rispetto alla stragrande maggioranza della produzione corrente, di qua e di là dell’oceano, al punto che si ascolta con incredulità una pagina di impianto così scopertamente “antico”, totalmente indirizzata sul versante narrativo melodrammatico e intimistico, privato, di una famiglia in vacanza travolta dallo tsunami che spazzò l’Indocina nel 2004. Il brano ha, come tutta la partitura, una forma concertante che prevede una vasta sezione di archi e un violoncello (lo strumento prediletto dal compositore) in funzione solistica: sin dalle prime battute della London Metropolitan Orchestra diretta da Velázquez si è immersi in un clima sospeso, doloroso e nello stesso tempo acquietato. Un disegno preparatorio lentissimo dei bassi precede l’entrata dell’arpa e del cello, su violini e viole, a esporre quello che è uno dei più bei temi uditi negli ultimi anni: una melodia in sol maggiore spontanea e fluentemente lirica, nobile e desolata insieme. La sua struttura accordale ne permette un utilizzo variativo su diverse colorature e a diverse altezze, e infatti il pianoforte, che l’aveva dolcemente spenta nei Main Titles, la riaccenna in mi bemolle maggiore all’inizio di “The best holiday season ever”, riaprendosi alla voce dello straordinario primo violoncello della LMO prima della nuova, intenerita coda pianistica. Nella sua semplicità nitida, quasi elementare, il tema si carica di pathos tanto maggiore quanto più viene prosciugato, alluso, “perifraseggiato” (“Kem Kang Noi” ma soprattutto la successione severa, inframmezzata da pause che respirano, degli accordi di archi in “My boys I cannot see them”). Il colore e il calore del suono, le arcate, la capacità di far “cantare” le corde anche sui pedali o sugli armonici si rivelano scelte di scrittura e di interpretazione fondamentali per l’atmosfera complessiva dello score: ogni frase, ogni segmento, ogni nota sono “pensate” e calibrate da Velázquez con un’attenzione e una tensione che escludono ogni soluzione riempitiva e ogni inutile invadenza.

Si è detto che The impossible non è un film d’azione, ove si eccettui la sequenza iniziale della catastrofe che non contiene musica (qualsiasi disaster-movie hollywoodiano avrebbe fatto la scelta opposta) a parte sommessi e minacciosi fondali di bassi al riemergere dai flutti di Maria (Naomi Watts) e del figlioletto Lucas. In generale la distribuzione della partitura nel film si svolge all’insegna di una rigidissima economia (il disco in tal senso, redistribuendo completamente i brani rispetto al missaggio italiano, espande e valorizza assai di più la musica): non a caso nel sottofinale, quando Maria sul tavolo operatorio rivive i momenti della catastrofe e il suo miracoloso (“impossibile”…) sopravvivervi, Velázquez utilizza un’agghiacciante, ultimativa progressione dei violini, di urticante perentorietà moderna. S’è anche già citata infatti la consuetudine del compositore con il cinema horror, cui va ascritta la partitura forse sin qui più famosa e lodata di Velázquez, per quel The Orphanage che con The Impossible ha in comune anche il regista, Juan Antonio Bayona: ce lo ricordano i cinquanta secondi di “Is it over?” aperti dall’allucinante, dissonante fortissimo degli ottoni seguiti dai guizzanti e gelidi disegni dei violini e da un crescendo spaventosamente informe e brutale, purissima e temeraria horror music dall’effetto compresso e dirompente. Ma è un versante cui in questo caso si attinge con estrema parsimonia. Prevalgono, dominano, conquistano le tonalità accorate, pensose, di una quasi rassegnata e sconsolata pacatezza. La presenza del violoncello si fa perorante e psicologicamente imprescindibile anche nelle pagine più mosse sul piano ritmico (“Go and help people”) mentre il dialogo tra piano e archi tocca le altezze di un adagio chopiniano nella cura dei “sottovoce” e degli intarsi timbrici di “I will bring your ‘Pappa’ here”: in ogni caso l’esplorazione delle sonorità degli archi in tutto il loro spettro, dal registro sovracuto a quello più luttuosamente grave, è per il compositore elemento fondamentale, mentre il decorso assolutamente orizzontale della scrittura musicale (accordi lunghi, pedali sospesi) si traduce in un fattore di incertezza e suspense interiore che confligge, fortunatamente, con la stucchevolezza sentimentale di tutta la seconda parte del film. Riappare il Velázquez da horror, possessore di ogni espediente e tecnica del caso, nei tremoli e nell’uso premonitore delle percussioni (timpani e grancassa in scansione lontanissima) in “But she’ll be ok, right?”, mentre al pianoforte vengono affidate frasi sussurrate, spesso armonicamente ruotanti intorno al Leitmotiv o alle sue variazioni come in “Mom, guess what I just saw outside?”, nel quale l’ostinato dei bassi sostenuti a distanza dai timpani motiva larghi accordi in crescendo e diminuendo degli archi seguiti da un tremolo dei violini in pianissimo, con un effetto di drammaturgia sonora strepitoso.
Lavorando con estrema concentrazione sull’intersezione tra l’elemento melodico (che con il progredire dello score declina sempre più il proprio debito morriconiano: si ascolti la solare apertura espansiva dei violini in “Let’s go, no need to wait”, al ritrovamento dei due figli più piccoli da parte del padre) e “action music” Velázquez ottiene chiaroscuri psicologici ed effetti di tensione emotiva purtroppo sconosciuti al film, che sembra voler percorrere una direzione più a senso unico e strappalacrime.

Come accade di frequente nell’ascoltare partiture cinematografiche iberiche di recente fattura, si resta stupiti della facilità e della naturalezza con cui le idee tematiche nascono e scorrono, s’incrociano e si sviluppano in un tessuto contrappuntistico e in un trattamento strumentale che non conoscono termini di paragone. Questo perché ogni battuta, ogni intervento, ogni nota sono scritti facendo i conti con una distribuzione della musica che fa tesoro anche dei silenzi, delle pause, degli intervalli, e che utilizza le arcate dinamiche con una circospezione microchirurgica (“He looked so happy”, che riespone in tutti gli archi il tema principale con una mutevolezza di accenti straordinaria); nella fattispecie non oltrepassando che raramente la soglia del mezzoforte. Una scelta di “bonifica” del suono che fa bene al cuore, oltre che alle orecchie.

La ricapitolazione finale dei lunghissimi End Titles assapora ulteriormente il tema per cello arpa e archi svelandone definitivamente la vocazione consolatoria e rasserenante, accentuata da un tempo ancora più lento e, nello sviluppo, da un cantabile dei violini di quasi ricattatoria commozione; nella coda appare, per la prima e ultima volta, un intervento di rilievo dei fiati grazie ad un cupo inciso dei corni su un moto agitato dei bassi (il “logo” musicale del disastro cui il musicista ricorre con estrema prudenza) ma la coda è ancora soffusamente, impalpabilmente per pianoforte e archi in pianissimo. Un congedo sottovoce per una partitura sottovoce, che interiorizza paura, dolore e volontà di sopravvivenza in un ambiente sonoro partecipe, pudico e coinvolgente.


La copertina del CDTitolo: The Impossible (Lo imposible)

Compositore: Fernando Velázquez

Etichetta: Quartet Records, 2012

Numero dei brani: 18

Durata: 42′ 29”


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