Amore, Poesia e Libertà - L'arte di Jan Švankmajer
Era il 1919 quando Robert Wiene diresse Il gabinetto del dottor Caligari, il primo film ad appartenere a tutti gli effetti alla corrente espressionista che si era andata pian piano delineando nella cinematografia tedesca del decennio , passando anche attraverso i notevoli Lo studente di Praga di Stellan Rye e Paul Wegener, Il Golem di Henrik Galeen e Paul Wegener e Homunculus di Otto Rippert.
Era il 1984 quando i fratelli Timothy e Stephen Quay diressero insieme con Keith Griffiths The Cabinet of Jan Švankmajer, un quarto d’ora di animazione a passo uno senza parole in cui si racconta di come un artista presentatoci “alla Arcimboldo” – con due tiralinee come braccia ed un libro aperto come calotta cranica – prenda con sé un giovane apprendista e dopo avergli svuotato la testa della segatura che la riempie gli insegni un modo diverso di avere a che fare con gli oggetti, permettendo loro di trasformarsi in qualcosa di nuovo una volta posati sul tavolo da lavoro. È un film quasi autobiografico, perché è stato attraverso i film di Švankmajer che i fratelli Quay hanno sviluppato l’amore per la stop-motion ed è dai suoi cortometraggi che hanno appreso quel gusto per il Surrealismo che caratterizza anche i loro lavori.
Nato a Praga nel 1934 da un vetrinista e una sarta, Jan Švankmajer è uno dei più importanti registi della storia della cinematografia cecoslovacca, per quanto i suoi lavori siano largamente sconosciuti nel mondo occidentale (nessun suo film è disponibile per il mercato italiano dell’home-video ad esempio).
A partire dalla metà degli anni Sessanta, Švankmajer ha messo l’arte cinematografica al servizio del proprio genio surrealista, tanto che il ben più noto connazionale Milos Forman l’ha definito «la somma di Walt Disney e Luis Buñuel». I suoi film sono in genere realizzati mescolando tecniche diverse, dalle animazioni a passo uno all’uso di marionette, dai disegni animati ai montaggi astratti. Švankmajer è infatti molto più che un semplice regista: coi suoi film non vuole raccontare una storia, ma infondere vita agli oggetti di uso comune; vuole trasportarci in un mondo magico in cui niente è inanimato, facendoci così dubitare della realtà stessa. Le sue pellicole sono ricche di simboli ancor più di quelle di Tim Burton e Terry Gilliam, che si ispirano chiaramente al suo lavoro, e attraverso la lente del suo obiettivo oggetti banali come coltelli, sedie e sassi diventano metafore di emozioni e idee.
È all’inizio degli anni Cinquanta, prima di iniziare a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Praga, che Švankmajer entra in contatto per la prima volta con gli scritti di Karel Teige – uno dei fondatori del Gruppo Surrealista Cecoslovacco – e con i dipinti di Salvador Dalì, ma è solo nella seconda metà del decennio, grazie al disgelo culturale del blocco sovietico, che scopre i lavori di Buñuel, Mirò e Max Ernst.
Se nella concezione degli storici dell’Arte occidentali il Surrealismo è ritenuto un movimento artistico sviluppatosi in particolar modo negli anni a cavallo delle due Guerre Mondiali, per Švankmajer non è una questione estetica ma una vera e propria filosofia, ancora perfettamente attuale. I surrealisti cecoslovacchi sono ossessionati dalla sessualità, dalla politica, dalle convenzioni sociali (tutte cose che Švankmajer ha affrontato più volte, nei suoi lavori), e vista la storia recente di quel paese è normale che il Gruppo Surrealista Cecoslovacco – di cui Švankmajer è entrato a far parte nel 1970 – sia attivo ancora oggi.
Pur essendo considerato un regista di animazione, Švankmajer ha sempre operato anche in altri campi artistici: nato nel teatro, è stato pittore, scultore e grafico, spesso mescolando tra loro arti diverse e sperimentando anche l’Arte Tattile insieme con la moglie Eva, pittrice surrealista a sua volta.
In generale, le sue opere riguardano l’Uomo e il suo mondo, per questo i suoi film non possono essere semplici lavori di animazione ma devono essere mescolanze di tecniche diverse. Nel cinema ha infatti saputo sfruttare bene le tecniche narrative care a registi dell’avanguardia sovietica come Ejzenstejn e Dziga Vertov. Il risultato sono pellicole intense, che ci appaiono scioccanti anche perché molto lontane dai film cui noi occidentali siamo abituati (una rarità su tutte: i raccordi sui movimenti di macchina, che donano grande forza al suo lavoro di montaggio).
Per quanto i suoi temi preferiti siano l’inconscio e l’infanzia – ma per un Surrealista l’infanzia non è il periodo dell’innocenza, quanto quello in cui le nostre paure iniziano a prender forma – i film di Švankmajer hanno tutti una forte valenza politica e ideologica, anche se spesso ad un livello estremamente simbolico. Ma è proprio questo simbolismo che li rende universali, senza tempo. Eppure sono ancora tremendamente pochi gli occidentali che conoscono il suo lavoro, ma questi pochi sanno quale genio sia Jan Švankmajer.
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