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"Fratelli di sangue": intervista a Davide Sordella

7 marzo 2006 Interviste 0 Commenti
Fratelli di sangue

Quando ancora l’uscita nelle sale italiane del suo primo lungometraggio a soggetto era lontana, il regista Davide Sordella ha accettato di parlare di quello che allora era intitolato “La radio”, raccontandone la genesi e discutendo dello stile e delle tematiche…


Tu hai avuto una carriera cinematografica abbastanza particolare, finora, che ti ha portato in giro un po’ per tutto il mondo a lavorare soprattutto in documentari e spot di pubblicità “socialmente utile”. Sei partito dalla scuola di documentario di Daniele Segre e sei arrivato alla scuola di cinema di Mike Leigh a Londra. Come mai questa voglia di spaziare a tutto tondo nel campo del cinema, quando si vedono sempre più spesso professionisti che si specializzano in una cosa e fanno sempre e solo quella?
Il regista Davide Sordella sul set di Fratelli di sangueUn mio “zio”, quando gli chiedevano che mestiere io facessi, rispondeva dicendo: «No, lui non lavora, fa il “cine”». Credo che ci sia una certa verità in questa frase. Il cinema per me non è un lavoro, ma una “scusa” per poter vivere certe esperienze profonde ed umane nelle quali, senza questa “scusa”, avrei più pudore a mettermi in gioco e a chiedere agli altri la stessa cosa.
Io sono una persona molto innamorata delle storie, a volte mi accusano di innamorarmi più delle storie delle persone che delle persone stesse… Sono da sempre affascinato dai racconti che la gente si scambia, si regala in modo casuale negli autobus, nelle sale d’attesa, di fronte ad un caffè, nei pranzi di famiglia… Il cinema è quindi per me la forma con cui entrare a far parte in modo più completo di questo meraviglioso “salone di pettegolezzi”.
Mi raccontava un vicino di casa in Bolivia di non essere mai uscito dalla propria vallata, l’unica cosa che conosceva del “mondo” erano i racconti che a volte in modo casuale ascoltava in casa sua sulle lontane città, sulla luce elettrica, sul mare… Un giorno quando era solo un bambino, gli muore una piccola alpaca e, terrorizzato dall’idea di tornare a casa, decide di scappare e andare a vedere cosa ci sia al di là della propria vallata. Così, comincia a scalare la montagna sino al colle che ne delimitava il crinale. «E sai cosa ho visto quando sono arrivato in cima? – mi ha detto – Un’altra valle, e un’altra valle, e un’altra valle ancora…» Credo che la mia vita e il mio bisogno di cinema siano un po’ sintetizzati da questa immagine.

Fratelli di sangue è stata la tua tesi di laurea alla London International Film School, ed è stato il tuo primo lungometraggio a soggetto. Un film, anche come impostazione, completamente diverso dalle cose che avevi girato in precedenza. Come l’hai concepito?
Fratelli di sangue nasce in un Agosto piovoso di Londra. La sceneggiatura è stata scritta di getto in un paio di settimane, scatenata da una frase reale che è poi diventata il centro del film, quando Lella dice: «Lo sai cos’è il peggio di tutta questa merda? Che alla fin fine in una famiglia ci si perdona». Una frase in cui coincide, secondo me, tutta la bellezza della relazione di sangue, ma anche tutto l’orrore, il baratro, quel cordone ombelicale mai tagliato che per me rappresenta la famiglia. Una frase che ha aperto in me – o meglio: che ha frantumato – il vaso di Pandora che mi portavo dietro da anni.

Fabrizio Gifuni in Fratelli di sangueIl titolo di lavorazione del film – La Radio – deriva da questa stazione radio che manda in onda le telefonate degli ascoltatori senza porre alcun filtro. E, prevedibilmente, arrivano solo telefonate di insulti contro tutto e tutti. Quest’idea della radio aperta come t’è venuta?
Quando me ne sono andato dall’Italia mi sono trovato a dover scegliere cosa portarmi dietro e cosa lasciarmi alle spalle. Ho deciso di portarmi un nastro, una registrazione con le telefonate di Radio Radicale di circa dieci anni fa. C’era veramente una radio che mandava in onda tutte le telefonate del pubblico, 24 ore su 24. Ne è venuto fuori uno spaccato agghiacciante dell’Italia, una visione a 360 gradi su quello che non si dice, quello che cova pericolosamente sotto la pelle. Quelle del film, purtroppo, sono telefonare vere. Io me le sono portate dietro per il mondo per una decina d’anni, lasciandole un po’ a “prendere polvere in cantina” per poi rispolverale insieme al mio passato. C’è quindi, secondo me, un certo parallelismo tra la vicenda personale, intima e particolare, di questa famiglia e quella di un paese che forse nasconde sotto una calma apparente delle cose non dette abbastanza da brivido.

E come mai hai deciso, per la prima volta, di girare un film in italiano?
Il film è stato scritto in inglese ed era pensato per essere girato in una cantina fuori Londra. Quando lo ha letto il mio tutor mi ha chiesto perché volessi fare un film così personale, così familiare e in un certo senso così italiano, in inglese. Credo avesse ragione, ed ho apprezzato moltissimo poter dirigere in italiano, poter cogliere le sfumature delle parole e delle intonazioni. Una piacevolissima esperienza.

Essendo Fratelli di sangue il tipo di film che è, gli attori ricoprono un ruolo importantissimo per la sua riuscita. Fabrizio Gifuni è stata la tua prima scelta per il ruolo del protagonista, mentre sua moglie Sonia Bergamasco avrebbe dovuto interpretare Lella. Ma come sei arrivato a scegliere gli attori che poi hanno girato il film?
Io non sapevo molto di cinema italiano contemporaneo e quindi ho visto in un mese quasi tutte le produzioni importanti degli ultimi anni. Mi ha colpito molto il Gifuni di Un Amore di Tavarelli, ma anche la sua esperienza teatrale sulle tragedie greche. Di Rongione più che i film mi ha molto interessato un suo spettacolo “comico” sulla propria famiglia che aveva messo in scena a Bruxelles. Quando invece ho incontrato Barbora, abbiamo fatto delle prove e delle improvvisazioni sul personaggio: mi ha colpito la sua preparazione come attrice, la sua serietà e semplicità. Un’attrice molto tecnica, precisa e capace di sacrificarsi per il risultato. Tre attori con i quali è stato un grande privilegio lavorare, dal punto di vista professionale ma anche sotto il profilo umano.

Barbora Bobulova in Fratelli di sangueChe tipo di lavoro hai fatto, con loro?
Abbiamo fatto cinque settimane molto intense di preparazione sul personaggio. Il film poi è stato girato molto velocemente, in due settimane e mezza. Per me era molto importante rendere credibile che fossero fratelli, che ci fosse familiarità e affetto, negli sguardi ma anche nella fisicità, nel modo di toccarsi, abbracciarsi. Durante parte della preparazione e nelle riprese i tre attori hanno vissuto insieme nello stesso appartamento, come una “vera famiglia”, chiamandosi solo e sempre con il nome dei personaggi.
Il primo giorno di prove siamo andati, senza dir loro prima nulla, alle catacombe di S. Callisto a Roma. Siamo scesi sotto terra, facendo una visita in completo silenzio. Penso che quell’esperienza – il buio, l’umidità, la sacralità di quella tomba – siano stati un’esperienza molto importante. Credo che uno dei compiti di un regista sia quello di fornire agli attori degli strumenti concreti che poi loro possano usare nel momento della performance, unita alla cosa più importante: mettersi in gioco con loro sino in fondo.

Hai lasciato spazio all’improvvisazione, sul set?
Non ce n’è stata molta, tranne che per Fabrizio Rongione. Ad un certo punto lui fa una telefonata in cui dichiara di voler uccidere sua madre, di odiarla per averli abbandonati da piccoli. Trovo sia un momento molto efficace ed è un momento totalmente improvvisato, prendendo spunto da una sua vicenda personale. In fondo noi registi siamo un po’ dei “manipolatori”, e usiamo “contro” i nostri attori tutto ciò che possiamo.

Fabrizio Rongione in Fratelli di sangueEssendo ambientato in una sola stanza, il film era una sfida anche dal punto di vista registico. Come avevi pensato di organizzare la messinscena per evitare di farlo sembrare uno spettacolo teatrale?
Il rischio era evidente. Quello su cui ci siamo concentrati tutti era raccontare una storia. Sembra banale e semplice, ma è tutt’altro che facile. Avevo come riferimento quel piccolo filone di film girati in una stanza: Linklater, Bergman, Lumet… sino a Lars von Trier. E’ interessante avere dei limiti, ti permette di concentrarti sull’essenzialità, nel nostro caso la storia e quello che io ritengo la parte più umana ed emozionante di questo “mestiere”: il lavoro con gli attori.
Lo specifico del cinema era per noi, oltre alla temporalità (i flashback, le apparizioni…), il poter guidare lo sguardo dello spettatore con un meccanismo preciso. All’inizio la camera è molto larga e stabile, per poi avvicinarsi lentamente verso i primi piani man mano che la storia si fa più intima, rompendo l’equilibrio formale (con jump-cut e camera a spalla) quando la telefonata di Roberto spezza la calma apparente dell’inizio. Con l’arrivo di Lella la camera si allarga di nuovo in modo estremo su tutta la cantina e si “calma”, per poi proseguire questo “carrello” virtuale sino al cuore della storia: i tre primi piani separati dei tre fratelli durante la telefonata finale.
L’idea di costruire una struttura ed una forma in un certo senso teatrale per tutto il film sino alla telefonata finale, è comunque intenzionale. In quel punto cambia totalmente il linguaggio, diventando in un certo senso più filmico (montaggio più serrato, ossessione per certe immagini come la sabbia scavata o il primo piano di Lella mentre fanno l’amore, la voce fuori campo che si mescola con parti di narrativa classica, musica e montaggio sonoro, inserti di fotografie e vecchi filmati…). L’intenzione era appunto quella di spezzare nettamente in due il racconto: una prima parte più ‘teatrale’ sino alla telefonata finale, al momento della verità. Quasi un simbolo, un modo formale di esprimere quell’idea che permea tutto il film sullo “spettacolino di Natale”, su quella grande “farsa” che a volte può diventare una famiglia: «tutti in posa per la foto, sorridenti…». L’idea era di proporre un linguaggio in teoria più neutro – meno costruito, più “pulito” ed essenziale, da spettatore che assiste distaccato ad un dramma, in modo esterno, quasi lontano (in questo senso più teatrale) – per la parte più fasulla, più di apparenze; ed invece un linguaggio più costruito, in un certo senso più falso, più mediato, per la parte della verità.
Fabrizio Gifuni in Fratelli di sangueUn importante distributore italiano, quando ha visto il film, ha fatto un unico commento: secondo lui potevo farlo a teatro, perché per lui questo non era cinema. Ci ho pensato molto, in tutta sincerità ed umiltà, e l’unica conclusione cui sono arrivato è che sia un commento imbecille. Credo che noi filmaker abbiamo sempre qualcosa da imparare dai percorsi di altre arti. Mi riferisco, nel caso specifico, alle cosiddette “installazioni” che sperimentano l’unione, il mescolamento, tra forme diverse come il teatro, l’arte figurativa più classica, il design, il suono, il video.. Credo che dopo anni e anni, l’unica conclusione a cui si sia arrivati è che il fatto di mescolare i generi o di scegliere un contenitore specifico non ha un valore per sé, non è un pregio in sé. Ci sono installazioni belle e altre orrende, alcune efficaci e altre no; credo che questo debba essere il parametro fondamentale con cui giudichiamo qualsiasi cosa come spettatori. Per cui credo che il commento che uno debba fare vedendo un film sia «mi ha comunicato qualcosa o no, mi ha emozionato, mi ha trasmesso delle cose o meno, l’ho trovato efficace in alcuni aspetti e meno in altri, l’ho trovato banale o disgustoso…» o ancora più semplicemente «mi è piaciuto o non mi è piaciuto». Credo che questo sia il fondamento, la base.
Certo il testo di questo film si potrebbe facilmente fare in teatro e mi piacerebbe molto, ma pensandolo in modo totalmente diverso dall’impostazione del film, proprio perché il teatro non è solo un testo recitato di fronte ad una platea. Mi avvicinerei, come regia teatrale, in modo completamente opposto al realismo che si è cercato di creare nel film. Credo comunque fondamentalmente che Fratelli di sangue sia un film, sia cinema, esattamente così come lo sono film ben più celebri e belli come quelli di Lumet, von Trier e Linklater.

Barbora Bobulova in Fratelli di sanguePur essendo prodotto nel 2003/04, il film ha avuto una distribuzione solo adesso. Come mai c’è voluto così tanto tempo prima che raggiungesse le sale?
Il film è uscito in una pre-distribuzione in Piemonte a fine Gennaio, in attesa dell’uscita nazionale per Aprile-Maggio. Devo dire che la reazione del pubblico è stata molto calorosa e positiva. Per me è veramente, senza falsa modestia, un privilegio poter incontrare gli spettatori in sala e condividere con loro per un’ora e mezza il sogno che ho visto e vissuto da solo. Sto imparando molto da quest’esperienza, anche se il panorama distributivo che sto incontrando è abbastanza disarmante, ma in ogni caso mi ha sorpreso e mi stimola vedere come, nonostante tutto, ci sia uno spazio per un film piccolo e particolare come questo.

Attualmente stai lavorando al montaggio del tuo nuovo film, KmZero, una commedia che racconta la storia di un travestito islamico. Un altro bel salto…
Il film che stiamo montando adesso è molto diverso da Fratelli di sangue. E’ una commedia, è girato quasi tutto in esterni, in dieci città diverse tra Italia, Spagna e Marocco. Fratelli di sangue è stata una sfida, mentre questo film va molto di più nella direzione cinematografica che vorrei seguire. Mescola molti linguaggi diversi: animazione, fotografia, videoclip, finzione, documentario… Tratta una tematica che può sembrare controversa, ma per noi è stata una grande esperienza umana realizzarlo e spero che questo arrivi anche agli spettatori, specialmente in un momento difficile come questo.


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