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"Salvate il soldato Ryan": intervista a Robert Rodat

30 settembre 1998 Interviste 0 Commenti
Salvate il soldato Ryan

George Khouri, pubblicata su Creative Screenwriting, Settembre/Ottobre 1998 – Tradotta da Alberto Cassani

Una ragazza aiuta uno stormo di ochette orfane a ritrovare la strada verso casa. Un allenatore statunitense prepara la squadra russa per il torneo olimpico di baseball. Una compagnia di soldati rischiano di tutto per salvare la vita di un singolo uomo…


Una giovane donna aiuta uno stormo di ochette orfane a ritrovare la strada verso casa. Un allenatore statunitense fa l’impossibile – preparare la squadra russa per il torneo olimpico di baseball. Una compagnia di soldati rischiano di tutto per salvare la vita di un singolo uomo. Sono tutte storie che raccontano un Valore, che ci mostrano la Speranza in un mondo pieno di cinismo. Sono tutte storie di Robert Rodat.

Rodat, che è laureato in Storia, ha studiato cinema alla University of Southern California. Ha iniziato a scrivere sceneggiature all’interno di alcuni “writing team”, sviluppando le storie degli altri, ma ha ottenuto il suo primo accredito con un film sul baseball scritto per la HBO, The Comrades of Summer. Da allora ha dimostrato un talento per le storie che raccontano dei valori umani, che si tratti di L’incredibile volo (cosceneggiato con Vince McKewin) o Tall Tale (insieme con Steve Bloom). Ci ha mostrato il suo lato oscuro con The Ripper, una storia sull’infernale Jack lo Squartatore. In questo periodo sta sistemando le ultime cose sulla storia di un’epopea dell’America rivoluzionaria [Il Patriota, n.d.t.]. Ma è con Salvate il soldato Ryan che Rodat ha spinto l’esperienza dei film di guerra ad un realismo assoluto e ci ha esposto al terrore di come una guerra può distruggere l’innocenza di un uomo. Con la leggendaria guida di Steven Spielberg, l’onestà dell’interpretazione che Tom Hanks ha dato del rigido Capitano John Miller e l’assistenza non accreditata di Frank Darabont e Scott Frank (nessuno dei due ha chiesto di avere il proprio nome nei titoli), questo film è una delle esperienze cinematografiche più emozionanti da diversi anni a questa parte.

Robert Rodat, classe 1953Le vite del Capitano Miller e dei sette soldati che sono con lui valgono davvero quella del soldato Ryan? Cosa fa di questo soldato semplice un simbolo così potente?
Quello che abbiamo cercato di esplorare, con questo film, è la concentricità delle nostre responsabilità. La responsabilità ci circonda con una serie di cerchi concentrici: tu hai la responsabilità di te stesso, della tua famiglia, di chi ti sta vicino, degli uomini della tua compagni, e persino della tua Patria. Credo che la forza morale di un uomo si veda da quanto è largo il cerchio della sua responsabilità. Ma non è solo questo: abbiamo cercato di descrivere anche quello che succede nella nostra “zona grigia” – scambierei mio fratello con qualcun altro? Con qualche altro centinaio di persone? Quello che succede in questa zona grigia che sta tra il preoccuparsi del nostro fratello e del nostro vicino di casa da una parte e preoccuparsi della Patria dall’altra è ciò che fa di noi degli esseri umani.

Cosa ti ha ispirato la storia? E’ stata scritta su richiesta o è un’idea originale?
L’ho presentata io alla Paramount. Era il periodo del cinquantesimo anniversario del D-Day, stavano uscendo un sacco di libri sulla Seconda Guerra Mondiale e quello era un argomento che avevo in testa. Io vivo in un piccolo paese del New Hampshire, e nella piazza principale c’è un monumento a tutte le persone della città che sono morti in guerra. In quasi tutte le guerre c’erano più di un membro della stessa famiglia che sono morti durante la stessa guerra. Questa è stata la scintilla che mi ha fatto benire l’idea. L’ho raccontata al produttore Mark Gordon e a lui è piaciuta. Ci abbiamo lavorato un po’ su e poi l’abbiamo portata alla Paramount.

Hai scritto undici versioni per Gordon prima di andare alla Paramount. Com’è cambiato il concetto iniziale nel corso di queste revisioni?
In realtà non è cambiato affatto. Io lavoro sempre scrivendo molte “versioni” in poco tempo. In realtà sono semplicemente delle correzioni, metto a fuoco alcuni punti mano a mano, e di solito faccio sempre almeno cinque di questi passaggi prima di iniziare a definire davvero le singole scene. Il concetto iniziale dello script, la struttura, il tema… era già tutto lì. E’ stato trovare la voce giusta per i personaggi che ha richiesto molto tempo.

Che tipo di ricerche hai fatto per scrivere questa sceneggiatura?

Innanzitutto ho letto un sacco di libri di storia, poi sono passato ai racconti dei reduci perché mi sono reso conto che era più importante capire che tipo di reazioni queste persone avessero avuto quando si trattava di combattere che non conoscere la logistica militare vera e propria. I soldati della vita reale non sono come quelli che si vedono nei film di guerra – i personaggi di John Wayne in film come Guadalcanal Diary o Back to Bataan. I soldati veri erano cresciuti durante la depressione, avevano visto i veterani della Prima Guerra Mondiale essere uccisi dall’esercito nelle strade di Washington. Erano cresciuti subito dopo il momento in cui il Partito Socialista aveva ottenuto il maggior numero di voti nella storia degli Stati Uniti. C’era un movimento pacifista che era in grado di bloccare tutto durante il primo periodo della guerra del Vietnam. Erano uomini consapevoli, cinici, eppure nel caos del D-Day – quando non c’erano ufficiali, non c’erano piani di battaglia e ognuno era per sé – erano solo queste unità di dieci uomini, e hanno fatto quello che andava fatto, mettendo a serio rischio la loro vita. Questo mi sembra straordinario. Per me la contrapposizione di cinismo e dovere è la cosa più interessante del film.

Lo sbarco in NormandiaCom’è finito il tuo script nelle mani di quelli della DreamWorks?
Alla Paramount c’erano già un paio di progetti per film ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale, per cui hanno messo il nostro in fondo alla lista. Però Tom Hanks ha letto la sceneggiatura e gli è piaciuta, così ha chiamato Steven. Quando entrambi hanno deciso di voler girare il film, il progetto è diventato una coproduzione tra la Paramount e la DreaWorks.

Qual è stata la tua reazione quando Steven Spielberg ha espresso il proprio interesse in qualcosa che tu avevi scritto?
Be’, è successo circa una settimana dopo che Tom Hanks aveva firmato il contratto, e la cosa mi ha fatto molto piacere.

Tom Hanks non è John Wayne…
Esattamente. Il personaggio di Tom non è il tipo di comandante “larger than life”. E’ un fragile essere umano, un ragazzo normale in una situazione anormale. Non so se è proprio per questo che Tom è rimasto colpito dalla sceneggiatura, ma credo che in qualche modo abbia avuto importanza. Non è un film in cui si va all’assalto e si spara a tutto quello che si muove: è un film su un ragazzo che sta combattendo con il concetto di dover uccidere delle persone e, cosa ancora più importante, di avere sotto il proprio comando delle persone che moriranno.

Ci sono stati degli elementi del personaggio che Hanks ha voluto cambiare?
In una delle prime versioni Miller aveva ottenuto la Medaglia d’Onore del Congresso. A Tom l’idea non piaceva, voleva che Miller assomigliasse all’uomo qualunque. E’ stata una buona idea, e sullo schermo è davvero riuscito a dar vita a quanto c’era scritto sulla pagina. Lui riesce a renderti facile immedesimarti in quella situazione. La prima mezz’ora del film, lo sbarco in Normandia, ha un grande impatto emotivo sul suo personaggio e sul pubblico. E’ una cosa molto dolorosa.

Ricordo di essere stato sorpreso del fatto che la storia non fosse incentrata sul soldato Ryan ma su Miller e la sua unità. E lo stesso Ryan non è esattamente come ce lo si aspetta.
Questo film gira intorno al concetto di sacrificio, racconta di un gruppo di giovani uomini che mettono a repentaglio la loro vita. Il personaggio di Ryan rappresenta tutti i Ryan che stanno combattendo, tutti gli uomini della sua unità, tutti gli uomini del suo esercito, e si spera tutti la gente a casa. Salvandolo come individuo, questi ragazzi stanno facendo qualcosa di patriottico, stanno cercando di salvare tutti noi e tutti coloro che si sono sacrificati durante la Seconda Guerra Mondiale. L’identificazione che il pubblico ha durante il film, cambia nel corso della proiezione: lo spettatore vedrà le cose attraverso gli occhi di Miller, perché è lui il protagonista, ma alla fine è Ryan che rappresenta tutti noi.

C’è stato qualche risvolto della trama che Hanks e Spielberg hanno voluto cambiare?
Volevano che Miller morisse, che poi era la mia prima idea di come la storia doveva risolversi. Quando ho presentato la sceneggiatura alla Paramount, a loro questa idea non era piaciuta, così ho passato un week-end riscrivendo un finale in cui Miller sopravvivesse. All’inizio della lavorazione, Steven mi ha chiesto di vedere anche le versioni precedenti, le cose che avevo scritto e le idee che avevo preso in considerazione. Gli ho scritto un lungo memoriale in cui gli raccontavo tutto quello che avevo considerato ma poi scartato, e le prime cose di quel memoriale erano la scena al cimitero di guerra e la morte di Miller. Avevo capito il ragionamento della Paramount: avrebbe potuto funzionare in entrambi i modi, ma era certamente più pregnante e potente nella versione in cui lui muore.

Tom HanksMi ha stupito vederlo sopravvivere, nella versione della sceneggiatura che ho potuto leggere, perché mi sembrava che lui avesse capito che quella sarebbe stata la sua ultima missione.
Quella che hai letto era un ibrido con un finale posticcio. Era evidente, nella versione che hai letto, che sarebbe morto nel corso della missione.

Cos’ha fatto Spielberg con la tua lista di idee scartata? Ne ha presa qualcuna che gli piaceva?
Era un memoriale molto molto lungo, con idee che avevo considerato ma mai scritto e lunghe sequenze che avevo scritto e poi scartato. Abbiamo avuto una lunga conversazione telefonica in cui abbiamo analizzato tutte e trenta le pagine di quel memoriale, e lui continuava a dire «Sì. Lascia perdere. Lascia perdere. Sì, questa tienila. Prova a svilupparla. Forse una parte di questa…» e roba del genere.

La sceneggiatura di Salvate il soldato Ryan sembra essere un esempio di perfetto processo produttivo. Il film e la tua ultima versione della sceneggiatura sono notevolmente migliori della prima versione. Da cosa credi sia dipeso?
Steven, Tom e Mark Gordon sono dei vulcani di idee. Adorano avere degli input e sputar fuori idee. Ad un certo punto Steven ha detto «Noi non abbiamo una gerarchia di comando: le idee possono arrivare da qualunque parte, e meritano tutte la stessa considerazione». Ad ogni dubbio discutevamo di tutte le possibili varianti. Una cosa davvero impressionante di Steven è che adora sentire le idee degli altri, e questo ha aiutato moltissimo il processo produttivo. Lui sa esattamente quello che vuole, ma prima di prendere una decisione definitiva gli piace sentire il parere di tutti.

Perché avete aggiunto il personaggio di Mellish?
Sia per motivi meramente logistici che per cose riguardanti i personaggi e la trama. Ci servivano più persone perché avevamo deciso di far morire qualcuno nel primo villaggio che il gruppo attraversa, in modo da aumentare la sensazione di pericolo. E poi ci serviva un personaggio in più nel finale – avevamo bisogno di due persone in più che morissero, uno nel secondo atto e uno alla fine del terzo. E la cosa ha riguardato anche Reiben, che adesso è interpretato da un ragazzo irlandese ma che in origine era un personaggio ebreo. Quando il ruolo è stato affidato a Ed Burns avevamo bisogno di un ebreo, in parte per via dell’allegoria sulla sua morte. Nel senso che lui muore mentre Upham [Jeremy Davies], pur sapendo che sta morendo, non fa nulla per evitarlo. La si può intendere come una rappresentazione in piccolo dell’Olocausto.

Volevo chiederti proprio se eri alla ricerca di una metafora dell’Olocausto, con quella scena.
La morte di Mellish [Adam Goldberg] è la scena più difficile da guardare, nel corso del film.

Senza dubbio.
E non è una coincidenza che sia stata l’inerzia di Upham che ha portato alla sua morte. Anche se gli Alleati hanno combattuto eroicamente durante la guerra, e in difficili situazioni, tutti gli Alleati e il Vaticano stesso sapevano dell’Olocausto e non hanno fatto niente per impedirlo.

Ma è una metafora corretta? Gli Alleati sapevano cosa stava succedendo ma decisero di non far nulla per impedirlo. Invece non è una scelta che Upham compie coscientemente, è più un’inabilità di salvare il proprio commilitone.
Non è un’allegoria perfetta e non è una metafora perfetta. Perde di senso, diventa confusa quando vedi quello che succede dopo. Alcune persone mi hanno detto che dopo che Upham uccide Steamboat Willie [il soldato tedesco che ha appena ucciso Mellish] sembra stia camminando sulla strada per diventare l’Eroe di Guerra tutto d’un pezzo. Cosa fare con l’Olocausto, dal punto di vista delle forze militari alleate non era una domanda di semplice soluzione. Bombardi i campi di sterminio? Be’, è un cosa moralmente difficile. Non è una situazione semplice da risolvere, e questa è la ragione per cui la metafora funziona e non funziona.

Tom Hanks, Matt Damon e Edward BurnsLa morte di Mellish è una scena molto importante, nel corso del film. Arriva verso la fine della proiezione ed è estremamente potente, ma Tom Hanks ha detto che quella scena non era stata scritta in sceneggiatura. E’ vero?

Sapevamo che sarebbe dovuto morire, ma il modo in cui sarebbe morte e la creazione della metafora sono venute dopo.

Ma pensi che quella scena si inserisca bene nell’insieme che avevi creato?
Sì.

Hai detto che il film gira attorno al concetto di sacrificio e di giovani uomini che mettono a rischio la vita, ma questa scena mi sembra esprima il concetto opposto. Non pensi che abbia in qualche modo tradito il tema principale?
Un sacco delle cose che accadono ad Upham sono semplicemente realistiche. Se leggi i racconti di Steven Ambrose in Citizen Soldiers e D-Day, l’eroismo è presente alla stessa maniera in cui sono presenti quelli che si ubriacano e fanno in modo di rimanere fuori dalla battaglia. C’erano persone che si nascondevano nel primo buco disponibile mentre i loro compagni venivano uccisi. Mostrare in Ryan tutta la gamma di possibili reazioni rende ancor più ammirabile il sacrificio di coloro che decidono di sacrificarsi. Se tutti sono degli eroi, allora il coraggio ne esce sminuito.

Il montaggio tra la lenta morte di Mellish e l’inerzia di Upham crea molta tensione, ma questa tensione non viene mai rilasciata. Quel era la strategia drammatica, in questa scena?
Il rilascio della tensione sarebbe arrivato se Upham, al momento giusto, fosse tornato in sé e avesse salito quei gradini per salvare la vita a Mellish.

Questo sarebbe stato un modo per farlo.
Sono convinto che il pubblico attraversi tre fasi, qui: prima pensi che Upham avrà un momento di dubbio, ma che tornerà in sé e salverà la vita del compagno. Ma la cosa dura un po’ troppo e allora pensi “Ehi, il regista la sta tirando un po’ troppo in lungo, sta drammatizzando troppo la cosa, è troppo finto”. E quando passi quel momento ti rendi conto che in realtà non salverà il compagno, che Mellish morirà. E questo è molto più realistico, questo è il momento che catalizza la tensione: l’agonia.

Sono d’accordo al 100%, ma dopo quel momento la tensione è sempre lì con il personaggio, non si risolve.
Esattamente: lascia andare il tizio. Upham può trovare una liberazione sparando a Steamboat Willie in seguito, ma non credo che il pubblico provi lo stesso. E’ un troppo poco, e arriva troppo tardi. Sai cosa dice il tedesco a Mellish mentre lo uccide?

Non sono riuscito a capire, ma immagino fosse qualcosa di sadico.
L’esatto opposto. Sta dicendo «Non lottare, non voglio farti male. Rilassati e lasciati uccidere, non ti farò male». Il tedesco sa di essere più forte, sa che lo ucciderà e cerca di rendere la cosa meno dolorosa possibile. Il che è ancora più spaventoso.

Jeremy Davies in una scenaQual era l’aspetto più intrigante della scrittura di questa storia?
Ricordo che mentre scrivevo pensavo «Ragazzi, questa sarà facile da presentare ad un produttore, ma è un inferno riuscire a scriverla!» Ed era davvero difficile. La logistica militare non era particolarmente difficile, e la trama non era cambiata gran che dalla prima volta che l’avevo scritta. La struttura narrativa di base e i temi da affrontare era chiari fin dall’inizio, ma il tono emotivo giusto era molto difficile da raggiungere, e l’ho raggiunto leggendo molti libri, molti racconti di vita vissuta. Sai chi era Bill Mauldin? Era un autore di cartoni animati: aveva due personaggi chiamati Willie e Joe, una coppia di soldati con le facce da cane, sempre stanchi e che passavano tutto il tempo a piagnucolare; erano dotati di un senso dell’umorismo molto strano. Sono stati i cartoni di Bill Mauldin e i notiziari di Ernie Pyle che hanno infuso ai miei personaggi il loro stanco, quasi stordito, senso dell’umorismo. La loro oppressione psicologica e al tempo stesso la rabbia nei confronti della loro situazione, ma anche la consapevolezza della missione che devono compiere. Questa è stata la cosa più difficile da mettere insieme, e questa mi è derivata dalla lettura di molti libri scritti da reduci, non dalla lettura di libri di storia – e certamente non dalla visione di film di guerra.

Puoi spiegare perché il Capitano Miller reprime le proprie emozioni? Sta nascondendo qualcosa ai suoi uomini?
Sì: la sua fragilità. Ha paura di andare in pezzi se lascia libere le sue emozioni.

Qual è la sua posizione iniziale nei confronti della missione: la accetta, o comunque la capisce?
Non può dirlo ai suoi uomini perché gli sta chiedendo di portare avanti la missione, ma pensa che sia tutta una stronzata.

Ma allora perché gli altri soldati che Miller e la sua compagnia incontrano durante il film capiscono ed incoraggiano il proposito di andare a salvare il soldato Ryan?
Perché non sono le loro vite ad essere in pericolo ed è quindi facile per loro dire «Oh sì, questo Ryan è un simbolo per noi e per le nostre madri, questo è quello per cui combattiamo». E questo è riassunto da quello che dice Wade [Giovanni Ribisi]: «Pensa alla madre di quel povero ragazzo». Ma Reiben gli risponde «Ehi: ho anch’io una madre, abbiamo tutti una madre! E’ un peccato che i fratelli di quel ragazzo siano morti, ma loro sono fuori da questa storia. Perché lui vale più di noi?» E’ facile dire che Ryan trascende il valore di un singolo soldato quando non sei quel soldato.

E’ corretto dire che gli uomini dell’unità di Miller rappresentano opinioni diverse che lui può aver considerato ma che non esprimerà mai?
Sì, si può dire che Miller sia un personaggio tridimensionale. E’ certamente il più complesso e sfaccettato dei componenti la missione: ci sono elementi di Reiben e Upham… in Miller ci sono elementi di tutti gli altri ragazzi.

Quando hai finito di scrivere la sceneggiatura ti sei mai detto «questo non riguarda Ryan, riguarda la costanza dell’Uomo»?
L’idea che Ryan rappresenti tutti noi e che ha un alto valore non è arrivata alla fine del processo creativo, è arrivata nei primi venti minuti di lavoro – questo era il concetto di base: una missione per trovare un ragazzo che rappresenta tutti noi. Sarebbe facile dire che Ryan rappresenta l’America, che Ryan rappresenta tutti noi, e che quindi ha un alto valore. Chiunque potrebbe dire una cosa simile, uno spettatore come uno dei personaggi che la squadra incontra durante la missione. Chiunque potrebbe dirlo – tranne Miller.

Quali sono le sensazioni che il vecchio Ryan prova ricordando gli uomini che hanno dato la loro vita per lui?
La domanda che si sta ponendo è se abbia o meno condotto una vita che ha giustificato il sacrificio che Miller e gli hanno fatto per lui. Noi del pubblico dobbiamo chiederci «Abbiamo condotto la nostra vita in una maniera che giustifica il sacrificio di tutte le migliaia di giovani anime che sono morte prematuramente?» La maggior parte di loro aveva 18 o 19 anni, la maggior parte di loro non era sposata, non hanno mai avuto figli. Non hanno mai potuto fare le piccole cose della vita che noi diamo per scontato. Erano diciotto-diciannovenni che sono morti per noi, e le nostre vite sono migliori per questo. Il vecchio Ryan si chiede «Mi sono meritato il loro sacrificio con il modo in cui ho vissuto la mia vita?» E dovremmo chiedercelo ogni volta che vediamo il film, o visitiamo il cimitero della Normandia. Abbiamo vissuto una vita che merita ed onora il sacrificio che loro hanno fatto per noi?

Cos’hai imparato, come scrittore, con il Soldato Ryan?
Scrivi quello che ti piace, fa un sacco di differenza. Quando scrivevo su commissione scrivevo quello che mi piaceva, ma con la pressione di dover rispondere ad una richiesta di mercato. Per molto tempo ho scritto tutto quello che potevo solo per potermi guadagnare da vivere, ma con Salvate il soldato Ryan stavo scrivendo un film che avrei voluto vedere. E questo ha fatto un sacco di differenza.


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