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"La grande bellezza" di Paolo Sorrentino

11 marzo 2014 Recensioni 14 Commenti
La grande bellezza

Medusa, 21 Maggio 2013 – Felliniano

Jep Gambardella, re dei mondani romani, compie 65 anni e comincia un bilancio della sua vita, incontrando vecchi amici e conoscendo una spogliarellista. Quando scopre che la donna che ha amato per tutta la vita lo ricambiava, decide di dare una svolta alla sua esistenza tornando a scrivere…


Toni Servillo in una scena di La grande bellezzaSorrentino gira in modo eccellente. Basterebbe la sequenza iniziale della festa per consegnare il film alla storia del cinema italiano: la macchina da presa che, inquieta, passa con stacchi repentini e movimenti fluidissimi da un personaggio all’altro: dai volti, alle gambe, alle figure intere della dolce vita del 2013. Roma come nel 1960; Jep Gambardella come Marcello Rubini si aggira per la Capitale rappresentativa di un’Italia distrutta, imbolsita, rinchiusa nel suo passato del quale si bea e dal quale non vuole uscire. Un’Italia, viene ribadito più volte, vacua e vuota, in piena decadenza.

Sabrina Ferilli, Toni Servillo e Giorgio Pasotti in La grande bellezzaLa fotografia è impietosa: davanti alle rovine della grandezza che fu (rappresentate dal Colosseo di fronte al quale Jep vive) i personaggi si dibattono, discutono, hanno piccole avventure, ricordano il loro passato in un «bla bla bla» che non porta a niente. Questo, purtroppo, è La grande bellezza: una confezione pregiatissima ma vuota che non dice assolutamente nulla più di quello che mostra: ovvero un gruppo di (quasi) vecchi che si sentono (non più) giovani. Si discute di morte, di vita e di amore ma lo si fa con una superficialità disarmante, eppure i personaggi sono tutti rappresentanti della “upper class”. Jep è un giornalista colto, Dadina è la direttrice del suo giornale, Romano è un autore teatrale: possibile che da nessuno di loro arrivi mai, nel corso dei 142 meravigliosi minuti di proiezione, una frase degna di nota, una riflessione un po’ più profonda, una rivelazione? Qualsiasi vicenda viene ridotta a gossip, tutto scorre addosso ai protagonisti ma nulla li scalfisce. La sceneggiatura di Sorrentino e Contarello non ha mai un guizzo, riduce i personaggi a poco più che macchiette – si salva solo il protagonista – e si dimentica che oltre ai vecchi decadenti mondani romani, appena al di là del Colosseo, c’è altro: ci sono altre storie, ci sono sentimenti, non fosse altro quelli che ruotano attorno alla Concordia affondata al Giglio.

Toni Servillo in La grande bellezzaGli echi felliniani sono ovunque: il lanciatore di coltelli, la giraffa, la giunonica Serena Grandi, la struttura a episodi. Ma purtroppo ci si ferma qui: se nel Fellini della Dolce Vita Rubini aveva uno sguardo esterno e un po’ critico verso la decadenza di Roma e dei suoi compagni di avventura, Gambardella è il principe di quel decadimento e anche un po’ il fautore e l’autore. Nulla cambia nei personaggi dall’inizio alla fine del film che si muovono all’interno del loro vuoto pneumatico e della loro esibita ricchezza senza mai uno scatto, un moto d’orgoglio. Sorrentino si è limitato a rappresentare questo vuoto dal quale, apparentemente, non c’è uscita. Il che andrebbe anche bene se i personaggi – o almeno Gambardella, che alla bellezza è condannato – questa condizione se la fossero scelta, invece si limitano ad accettarla passivamente, senza reazione alcuna.

Toni Servillo in La grande bellezzaTutto il resto è Sorrentino, che mette in scena con una bravura e una tecnica sconosciute al nostro cinema un’estetica dell’inquadratura che – tristemente – è assente da troppi anni nelle produzioni nostrane. Ma un film non è solo immagini: non bastano movimenti di macchina spericolati, inquadrature precise, primi piani impietosi e perfetti, dettagli e luci studiati alla perfezione per fare un grande film. Il lavoro di Sorrentino è magnifico, ma manca il lavoro di uno sceneggiatore, di uno scrittore, di qualcuno che immagini le situazioni e i sentimenti e li traduca in parole. Nel frattempo, speriamo che l’Oscar vinto faccia bene al cinema italiano e che lo spinga a risollevarsi dal torpore e dall’indolenza nel quale è precipitato.


La locandina di La grande bellezzaTitolo: La grande bellezza
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia: Luca Bigazzi
Interpreti: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Franco Graziosi, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Sonia Gessner, Anna Della Rosa, Luca Marinelli, Serena Grandi, Giusi Merli, Giovanna Vignola
Nazionalità: Italia, 2013
Durata: 2h. 12′


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Attualmente ci sono 14 commenti a questo articolo:

  1. Marco ha detto:

    Insomma diciamola tutta: gli americani l’hanno premiato perchè gli ricordava Fellini ed è ben confezionato. Sorrentino è stato bravo ad “abbindolarli”.

  2. Alberto Cassani ha detto:

    Mica solo gli americani, ha abbindolato…

  3. M.A.G.D ha detto:

    “Nulla cambia nei personaggi dall’inizio alla fine del film che si muovono all’interno del loro vuoto pneumatico e della loro esibita ricchezza senza mai uno scatto, un moto d’orgoglio.”
    Questo descrive il film ma anche l’Italia e nel mondo,Vecchi e Giovani, anche se nelle parole dei protagonisti non ci siano riflessione si è capito bene il messaggio del film.
    L’unico personaggio/comparsa che ha detto una FRASE che ha senso è la BAMBINA che si era persa e dice “Tu chi sei? Tu non sei nessuno”.
    Ciò ci fa riflettere che non si nasce Mondani e che gli adulti devono dire ai giovani di riflettere non all’incontrario.

  4. Riccardo ha detto:

    Facessimo più film così…

  5. Plissken ha detto:

    E così il Binini ha mantenuto fede alla parola e più solerte di Lurch (il riferimento non è puramente casuale…) ci regala un’ottima recensione del tanto discusso ultimo film del Sorrentino.

    A mio avviso la disamina è completa ed esaudiente in quanto ho potuto riscontrarvi le impressioni avute dalla visione del film oltre a qualche altro punto apparso ai miei sensi meno manifesto.

    Concordo quindi con quanto espresso, per quanto vi sia un dubbio che ancora sussiste in my mind:

    “…un’Italia distrutta, imbolsita, rinchiusa nel suo passato del quale si bea e dal quale non vuole uscire”

    “…possibile che da nessuno di loro arrivi mai, nel corso dei 142 meravigliosi minuti di proiezione, una frase degna di nota, una riflessione un po’ più profonda, una rivelazione…”

    “Nulla cambia nei personaggi dall’inizio alla fine del film che si muovono all’interno del loro vuoto pneumatico e della loro esibita ricchezza senza mai uno scatto, un moto d’orgoglio.”

    “…Il che andrebbe anche bene se i personaggi … (che vivono) …questa condizione se la fossero scelta, invece si limitano ad accettarla passivamente, senza reazione alcuna”

    la “superficialità delle discussioni” e la sorta di fatalismo che pervade i personaggi destinandoli (come sopra)all’evidente vacuità della loro esistenza, è da intendersi come una mancanza della sceneggiatura e della caratterizzazione dei personaggi o come STRUMENTO consapevole da intendersi come atto di accusa, il cui fine è porre l’accento sull’ignavia di chi plasma la società contemporanea? Tutto sommato è attraverso il ricordo e la ri-presa di coscienza di un sentimento “nobile” che il protagonista ritrova qualche barlume della propria essenza, smarritosi nella mondanità romana. Potremmo quindi aver assistito, contrariamente ai consueti canoni stilistici, all’esposizione di una società malata vista attraverso gli occhi di chi ne è parte attiva, non epurata da un “eletto” che ne palesa a noi i sintomi.
    Oltre a ciò, per quanto i personaggi rispecchino il ritratto da recensione, quelli interpretati da Verdone e dalla Ferilli lasciano intravedere, quindi parzialmente, un non del tutto sopito lato più umano che viene inesorabilmente fagocitato dal “buco nero” che li circonda.

    Seguendo questa ipotetica per quanto banale chiave di lettura i risultati dell’analisi potrebbero essere ribaltati: ciò che appare palesemente come una enorme perizia registica e tecnica risulterebbe infine totalmente inefficace in quanto, anziché esaltare il fine ultimo, lo occulterebbe mediante pletorici barocchismi.

    P.S.
    Qualunque sia il caso, e qui insisto imperterrito, sarebbe da segnalare al Morandini che l’asserzione “il contenitore vale più del contenuto” potrebbe trovare collocazione più consona nel prossimo Dizionario.
    Non è ancora una minaccia eh…

  6. Francesco Binini ha detto:

    La grande bellezza è un film “artistico”, volutamente ermetico. Prescindendo dall’elemento estetico ci si può vedere qualsiasi cosa e ogni ipotesi è valida, purché coerente. Paradossalmente si potrebbe anche dire che tutti i personaggi (che sono relativamente pochi) sono dei fantasmi, perché non hanno mai interazioni con il mondo esterno. Diventerebbe un film alla “sesto senso”. In qualsiasi modo la si voglia vedere (e la tua ipotesi non è per niente campata in aria), a mio avviso, la sceneggiatura non approfondisce i personaggi o, meglio, il personaggio. Jep non è uno che si trova in quella situazione per caso. E’ uno che l’ha voluto (e poi ne è stato risucchiato) e in 142’ non ci riflette mai. E sottolineo la durata del film perché a mio avviso il concetto era ampiamente chiaro già dopo la prima ora (e non dico dopo la sequenza della festa perché sarei ingiusto). Questa mancanza di riflessione è paradossale in un film che ha alte ambizioni e in un personaggio che in generale riflette parecchio e che di certo non è uno stupido. Ed è ancora più paradossale in un film che parla (o non parla, se vuoi) di questo.
    Poi questo può piacere o non piacere. A me non piace, almeno in questo caso.

  7. Plissken ha detto:

    Si, quanto dici traspare in maniera evidente anche dalla recensione, che, ripeto, ho apprezzato. Se difatti ho manifestato il mio “appoggio” alla tua chiave di lettura è perché vi ho riscontrato analogie inerenti la mia personale percezione dei punti forti e deboli.

    Per ciò che concerne la ventilata ipotesi, specifico che invertendo i fattori il prodotto con cambierebbe: i difetti rimarrebbero dello stesso numero, ma con meno punti a favore della regia che perderebbe parte del valore assegnatole in quanto mero esercizio di stile, e più punti a favore di una sceneggiatura dal maggior inespresso potenziale, offuscato da virtuosismi gratuiti.

    Riguardo la “piattezza” del personaggio di Jep, che in 142 minuti non riflette mai su ciò che è e che fa, concordo; ma va anche detto che la cosa mi meraviglia assai meno di quanto tu possa credere, purtroppo.

  8. Andrea ha detto:

    Comunque secondo me, l’alibi del film vuoto per descrivere un’Italia vuota, è come definire “satira sociale” un film di “cacca”.

  9. Francesco Carzedda ha detto:

    Devo ancora vedere “La grande bellezza”, ma già ho idea che per definizione non sia un “vuoto”.
    Mi sento di dire che – come vale per tutte le opere, che dovrebbero essere rivisitate in diverse fasi della vita – “La dolce vita” abbia avuto un momento di rielaborazione in “Intervista” dello stesso autore e che in questo momento una riflessione (anche così, aperta) fosse necessaria e sia produttiva.

  10. Vulfran ha detto:

    L’analisi la trovo giusta, però non ne capisco però le conclusioni: quali profondità e quali frasi degne di nota ci si dovrebbe aspettare da persone che hanno buttato via la propria vita in “trenini che non vanno da nessuna parte”? Proprio perché hanno scelto loro di vivere così si sono autocondannate (un po’ come i dannati dell’inferno descritto da che Eco fa ne “L’isola del giorno prima”: un luogo senza Dio, tutto qua). Il film mette in scena il niente che sono diventate le loro vite, perse nell’opulenta scenografia del potere di una città che digerisce il potere da più di duemila anni.

  11. Francesco Binini ha detto:

    Il vuoto e il niente delle loro vite, certo. Però Jep non è uno stupido insensibile. Tant’è vero che quando intervista l’artista, all’inizio, ne trova immediatamente il nervo scoperto e la interroga sulle “vibrazioni” che sente. E si mostra molto perplesso. Da un personaggio del genere, che compie 65 anni, scopre che una donna che lui amava l’ha amato per tutta la vita , un bilancio della sua vita me l’aspetto e il film in un certo senso se lo propone. Di Jep entriamo nella mente: è lui che ci dice “volevo il potere di farle fallire. E ci sono riuscito”. E’ sempre Jep che “smonta” l’amica. In modo pure crudele. Quindi una riflessione sulle loro vite lui l’ha fatta.
    Quindi una riflessione più profonda si poteva esprimere. Vista l’ampiezza del racconto, a mio avviso, non solo ci stava ma era pure necessaria.

  12. Vulfran ha detto:

    Quello che intendevo dire è che avendo Jep deciso di dedicare la propria vita al niente non possiamo aspettarci un monologo in stile Re Lear, l’indolenza è l’essenza del personaggio: capisce ma non fa niente per cambiare. La riflessione finale, non a caso, mantiene un’aura “blues” (“Finisce sempre così, con la morte, prima però c’è stata la vita, nascosta sotto i bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto nella coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo, bla bla bla bla. Altrove c’è l’altrove, io non mi occupo dell’altrove, dunque che questo romanzo abbia inizio. In fondo è solo un trucco, si è solo un trucco.”).

  13. Vigile ha detto:

    D’accordissimo sulla recensione. Il paragone obbligato con Fellini é tutto a discapito di Sorrentino, Oscar o non Oscar, su questo non ci piove, e mi dico che questo vuoto che viene illustrato con maestria, é quello di un’epoca, non solamente di un ceto; é il vuoto generato da un senso di fatalismo inerente alle nostre vite attuali, sconosciuto ai tempi della “Dolce vita” dove il senso che pervadeva tutto era l’inquietudine che abitava i personaggi e che li spingeva a interrogarsi su se stessi e sul mondo che li circondava.
    E la grandezza di Fellini é stata quella di incarnare questo senso di inquietudine nei confronti della vita nel personaggio di Anita Ekberg e di trasfigurare questo malessere esistenziale in inquietudine amorosa da parte di Marcello, spingendolo verso esperienze diverse. Ma Fellini si sente partecipe attraverso i suoi personaggi, ne condivide le ansie, mentre non percepiamo esattamente dove si ponga Sorrentino,( come giustamente dice Plissken: é strumento consapevole o no?) e il film finisce per volteggiare e divagare nel girone del fatalismo e della vacuità che mette in scena e che , magari, vorrebbe stigmatizzare.

  14. Giovanni Berardi ha detto:

    Che cos’è la vuotezza interiore? Come ci si arriva ad un tale stato di abbandono totale? Come si riesce a sopperire a questa incredibile mancanza di scopo? Ma soprattutto, è davvero possibile sovvenire ad una finta e nulla volontà di potenza?
    Jep, il protagonista della pellicola, incappa fin da troppo giovane in questo vuoto vitale, ed ormai a 65 anni si rende conto di esser divenuto un involucro completamente vuoto.

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