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Soundtrack: "11 Settembre 1683" di Roberto Cacciapaglia

17 giugno 2013 Soundtrack 0 Commenti
Roberto Pugliese, 27 Maggio 2013: * * * * *
In collaborazione con Colonne Sonore

Artista eclettico ma estremamente selettivo, il 60enne milanese Roberto Cacciapaglia ha messo le sue incredibili capacità e la sua voglia di ricerca e commistione musicale al servizio del film di Renzo Martinelli sulla battaglia di Vienna che oppose la Lega Santa all’esercito ottomano…


Se non temessimo di semplificarne e sminuirne ingiustamente la figura e il ruolo, potremmo definire il milanese Roberto Cacciapaglia, classe 1953, un musicista a 360 gradi. Ma la definizione, ancorché semanticamente chiara, non renderebbe giustizia al suo profilo. Poco utile anche ricercare paragoni o similitudini fra la sua opera e tendenze o personalità verso le quali Cacciapaglia dimostra indubbie assonanze: si pensi alla “kosmische musik” dei tedeschi Popol Vuh o Tangerine Dream, o – per restare sul piano del soundtrack – a Vangelis sino ad Hans Zimmer e alle sue smisurate architetture technosinfoniche condotte a livelli iperbolici nel capolavoro di Inception.
Tutto questo fornisce elementi utili ma non compone un quadro completo. Ed è proprio forse in questa “inetichettabilità” che consistono il valore e l’originalità di questo maestro, la cui scrittura musicale si fonda – tentiamo di sintetizzarlo rapidamente – sull’abbattimento o meglio l’incontro fra i generi e le forme musicali (orchestra & computer, opera e musica per film, musica assoluta e musica per pubblicità), su una riflessione di tipo culturale e filosofico intorno al “suono” e alle sue potenzialità nella sfera delle emozioni umane (di qui l’interesse per la danza, per i testi sacri dalla Bibbia al Qoelet, per religioni e culture lontane e più complessivamente per l’incontro tra musica ed esperienza spirituale in senso lato), e infine su un eclettismo linguistico che rende conto di tutte le tappe del percorso formativo che ne ha caratterizzato la carriera e forgiato le competenze: compositore uscito dal “Verdi” di Milano quindi con una ineccepibile fisionomia classica, direttore d’orchestra, pianista, esperto di informatica musicale, sperimentatore, collaboratore del CNR di Pisa, session man di Franco Battiato…

Una simile vastità di esperienze e interessi non tragga in inganno: Roberto Cacciapaglia è un artista eclettico in senso alto ma molto selettivo, per niente mainstream. La “popolarità”, quale categoria imprescindibile della postmodernità, gli interessa men che zero: lo spessore e la continua, ribollente ansia contaminatoria delle sue opere gli impediscono un’appartenenza nitida a qualsiasi schieramento stilistico o a un genere piuttosto che a un altro, visto che la sua vocazione è – appunto – quella di mischiarli, i generi, così come le tecniche, gli strumenti, le fonti. Da tutto questo emerge un universo sonoro assolutamente limpido, per nulla intellettuale o peggio cerebrale, molto frastagliato e sontuoso, affascinante e spiazzante: estraneo alle avanguardie dal punto di vista del linguaggio (che anzi è molto “tradizionale” e coinvolgente) ma assai spericolato sul fronte tecnico.
Un identikit – sommario, beninteso – che sembra fare di Cacciapaglia un compositore perfettamente contemporaneo e ideale per colonne sonore. Ma anche in questo campo la sua attività è severamente selezionata, e limitata a progetti dove il suo lungo, complesso e ambizioso progetto di ricerca (che l’artista porta avanti ormai dagli anni Settanta) abbia modo di esplicarsi e svilupparsi in piena libertà. Presente come si diceva in pubblicità, teatro e documentaristica, al cinema e in Tv già da metà anni 80 (l’intimista A fior di pelle di Gianluca Fumagalli con Bisio e Mariella Valentini), il nome di Cacciapaglia è soprattutto legato ad autori appartati e opere particolari come il singolare Punto di fuga di Claudio Del Punta (con una Roma inusuale vista attraverso gli occhi di un pianista inglese), la miniserie poliziesca Onora il padre, il mélo della memoria The Lake di Robert Golden, il docufilm palestinese Guerra di Pippo Delbono, geniale e coraggioso uomo di palcoscenico, sino ai film di nicchia, molto “autoriali”, controversi e tematicamente scottanti, sospesi fra cinema, arte e teatro poetico, firmati da Elisabetta Sgarbi (Notte senza fine, Apparizioni Mathias Grunewald, Il pianto della statua).
La fragorosa irruzione in questa ristretta filmografia del kolossal di produzione anglo-italo-polacca diretto da Renzo Martinelli (cui dobbiamo l’imbarazzante Barbarossa con Raz Degan nei panni di Alberto Da Giussano e la comparsata di Bossi in quelli di nobiluomo “lumbard”, con uno score peraltro suggestivo di Pivio e Aldo De Scalzi, spesso collaboratori del regista brianzolo) potrebbe a questo punto sorprendere. L’11 settembre 1683, volutamente evocato da Martinelli in simbolica simmetria con gli attentati di Al Qaeda alle Twin Towers newyorchesi del 2001, è infatti la data in cui si combatté la Battaglia di Vienna, dove l’esercito della Lega Santa, trascinato dal carisma del frate cappuccino pordenonese Marco d’Aviano (interpretato da F. Murray Abraham) respinse il tentativo ottomano d’invadere la capitale austriaca e da lì il resto d’Europa: episodio-bandiera, nell’intento del greve manicheismo ideologico dell’operazione (la sceneggiatura è dello stesso Martinelli con l’archeologo-scrittore-divulgatore Tv Valerio Massimo Manfredi), dello “scontro di civiltà” tra fede cristiana e fede musulmana, nonché della resistenza dell’Occidente contro l’invasore islamico: più o meno all’insegna del proverbiale «mamma li turchi!», insomma…
Lasciando perdere i fondamentalismi di ogni ordine e grado, varrà invece la pena di annotare come l’occasione, soprattutto nella sua valenza epica altamente spettacolare, sia stata colta da Cacciapaglia quale straordinaria opportunità di multiculturalismo e apertura stilistica (a cominciare dai luoghi di registrazione della partitura, avvenuta tra Milano e Istanbul…), ovvero l’esatto opposto dell’impostazione culturale e ideologica del film. Interessante e stimolante contraddizione – l’ennesima – a dimostrare quanto la musica per film a volte, pur servendo diligentemente il committente, si muova su coordinate e secondo leggi totalmente proprie e autonome.

Va detto subito che la partitura trasmette una grandiosità concettuale e un’imponenza sonora sconosciute alla musica cinematografica italiana corrente. Gli organici, le risorse, i contributi chiamati a raccolta sono vasti e diversificati, e rientrano perfettamente nella concezione creativa di ampio respiro del compositore. Il quale dirige e coordina con fermo sguardo d’insieme la magnifica Cantelli Orchestra di Milano, solisti di prestigio e sensibilità come i violoncellisti Claudio Giacomazzi, Enrico Guerzoni e Silvia Longauerova, l’oboista Francesco Quaranta, i celestiali soprani Nuria Rial e Anna Simboli, l’ensemble vocale “Il canto di Orfeo” diretto da Gianluca Capuano, le tastiere di Giampiero Dionigi e il “rythm programming” di Gianmaria Serranò (rispettivamente anche coproduttore e responsabile della pre-produzione e dell’editing della partitura); e, tutt’altro che ultimo in ordine di importanza, il GM Ottoman Ensemble sotto la consulenza di Neslihan Ylmazel Iorio, così come Jacopo Croci e Massimiliano Dragoni sono invece i consulenti rispettivamente per quel che riguarda la musica antica europea e il ruolo delle percussioni.
Un dispiego di forze e di intelligenze, di competenze e di culture che trova la propria ragion d’essere e il proprio ruolo compiuto in un affresco avvolgente, voluttuoso e dall’impianto fortemente multietnico. Che mescola i moduli della musica occidentale e profondi influssi arabi e orientali in un’atmosfera cangiante e in continuo movimento: nella quale l’astrazione e “l’alienità” del suono computerizzato arricchiscono di suggestioni sovra-reali e simboliche la materia del racconto, alternandosi con pagine di levatura lirico-sinfonica squisitamente neoclassica.
Innumerevoli gli esempi, in una partitura tra l’altro molto lunga e ricca. Si citava inizialmente non a caso lo Zimmer di Inception, cui rinvia l’inizio marziale e misterioso di “Eclipse”, scandito da solenni percussioni e procedure accordali, prima che si alzi il semplice tema dell’oboe, poi ripreso armonicamente dal brivido del tremolo degli archi, con un sound di ottoni a fare da marmoreo sottofondo.
Non è – lo ripetiamo – un paesaggio consueto nel provincialismo spesso soffocante della musica cinematografica di casa nostra. Ma Cacciapaglia non scimmiotta modelli neohollywoodiani né insegue improbabili atletismi ad effetto. La manipolazione laboratoriale del suono (“The wolf and the sword”) è il frutto di anni di ricerca sul campo e di esplorazione radicale delle possibilità delle tecnologie applicate alla materia: il punto di sintesi fra il software di un pioniere della musica elettronica e l’incandescente materia di suoni venuti da Oriente è raggiunto in brani come “Abul the Turk”, “Kara Mustafa” e l’incantatorio, notturno “Topkapi”, dal decorso melodico filologicamente e rigorosamente “etnico”, o in “The great tournament” e “Coronation of the Grand Vizier”, pulsanti e ossessive pagine d’atmosfera che rivelano – a livello concettuale – il completo possesso da parte del compositore dei metodi di scrittura di riferimento, sino a sfiorare il citazionismo accademico.

Si faceva più sopra cenno all’immediatezza comunicativa del linguaggio musicale della partitura, il cui assetto polisemico e polistilistico non confligge con una straordinaria fluidità lirica e un melodismo quasi elementare, fondato però più sull’intarsio armonico che su elucubrazioni leitmotiviche: si ascolti il disegno dell’arpa di “Attraction”, la ripresa esotica del nucleo centrale, il cupo sviluppo di celli e ottoni, il magico, misterioso susseguirsi di rintocchi conclusivi, in un clima da “Mille e una notte”. Analogo discorso per il magnifico “Wild Side – Lena’s theme”, che si distende in una massa di suono (archi, fiati, percussione) travolgente, eppure destinata a fasciare un solo, ricorrente ed elementare tema: e per “The Prophecy”, ossessivamente inchiodato a un rullare ritmico fisso e a un inciso di due note (sol-sol diesis), in uno stile quasi postminimalista.
Perfettamente in grado di immergersi anche cronologicamente nell’ambiente musicale dell’epoca, ecco Cacciapaglia suscitare fanfare, spinette e moduli haendeliani in “The golden apple” e soprattutto “The Duchess of Lorena”, autentica e sapiente parafrasi barocca nuovamente sigillata dal canto struggente dell’oboe. Un brano come “Declaration of war” – ancora strutturato armonicamente sull’inciso sol-sol diesis – ci dice poi che il compositore coltiva una pressoché naturale inclinazione all’action music quasi horneriana: l’uso delle percussioni, il tremolo minaccioso e incalzante dei bassi alternati con gli ottoni e inframmezzati da pause sospensive, l’inserimento tetro del coro, tutto insomma depone per una tecnica e una perizia applicative che sicuramente troverebbero grande fortuna oltreoceano.
Meno fortuna vi troverebbero forse però il rigore strutturale, musicologico e l’attingimento a piene mani dall’inesauribile patrimonio sia della musica occidentale che orientale di tre secoli fa, continuamente fatte interagire, che Cacciapaglia continua a dimostrare nella partitura: lo testimoniano ancora l’icastica asciuttezza di alcune pagine d’azione (gli staccati degli archi, il crescendo violento di “The great explosion”), una solenne marcia funebre come “The fallen”, ancora dalla connotazione fortemente europea, ma specialmente una pagina di abbagliante quanto essenziale bellezza quale “Rainbow in the dark”: qui, nella frase piena, pastosa del cello di Enrico Guerzoni prima, poi nella ripresa melopeica, lamentosa, accasciata degli archi, nell’intervento siderale della voce di Anna Simboli, e negli inserti quasi “fantascientifici” delle tastiere dello stesso Cacciapaglia e della ritmica di Gianmaria Serranò, si esaltano davvero al massimo il multiculturalismo evocativo, la piena padronanza di un bagaglio musicale immenso e meraviglioso venuto da Oriente e il suo plasmarsi quasi docilmente alle rielaborazioni e reinvenzioni timbriche del musicista milanese.
Se “Drums of war” è un palpitante esercizio virtuosistico per sole percussioni e “The sense of dawn – Battlefield” uno scampolo di “battle music” aggressiva ed efficace concepita – questa sì – su evidentissimi modelli hollywoodiani, “The future” è un “largo” dagli orizzonti armonici spalancati e dalle sonorità imponenti ma non trionfalistiche, e “The King” chiama coro e voce sopranile prima, archi e ottoni poi, a un tema verticale e mistico difficilmente resistibile. Ma è ancora in “Temple – Death of the Grand Vizier” che l’intreccio apparentemente innaturale fra cello, voce femminile, riverberi percussivi e sonorità sinistramente artefatte tocca un altro vertice contaminatorio e stordente, restituendo il significato della “modernità” di una partitura che a questo punto abbiamo compreso essersi spinta linguisticamente ben oltre la propria destinazione: e il ritorno in crescendo e in progressione della lenta, scultorea fanfara di ottoni, archi, arpa e soprano (nella iperuranica scrittura vocale balenano echi della scrittura morriconiana per Edda Dell’Orso) in “The future – The end” ne è il degno suggello.

Dunque l’impressione è che lo “scontro di civiltà” evocato nel film abbia piuttosto trovato, nello sfarzoso ma intransigente score di Cacciapaglia, un “incontro di civiltà” musicali: senza per questo certamente tradire le esigenze narrative del prodotto. Ma elevandovisi – e di parecchio – al di sopra.


La copertina del CDTitolo: 11 Settembre 1683

Compositore: Roberto Cacciapaglia

Etichetta: Nisa – Edizioni Curci, 2012

Numero dei brani: 28

Durata: 73′ 48”


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