Soundtrack: "La pelle che abito" di Alberto Iglesias
Roberto Pugliese, 21 Novembre 2011: * * * ½ |
In collaborazione con Colonne Sonore
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Sono ormai vent’anni che Alberto Iglesias collabora con Pedro Almodóvar, ma è stato soprattutto negli ultimi film – da Parla con lei in avanti – che il compositore di San Sebastian che ha fatto affiorare totalmente la sua vena più eccentrica. La pelle che abito non fa eccezione…
Da quasi un ventennio ormai (Il fiore del mio segreto, 1995) Alberto Iglesias è divenuto il “complice” musicale del cinema torbido, caustico, melodrammatico, emotivo, eccessivo di Pedro Almodóvar. In particolare negli ultimi film (Parla con lei, Tutto su mia madre, Volver, La mala educación, Gli abbracci spezzati) la vena poliedrica, contaminatoria, saldamente classica ma anche imprevedibilmente eccentrica del 55enne compositore di San Sebastian (che ha modo di esprimersi egualmente in operazioni di tutt’altra caratura come il dittico guevarista di Soderbergh) è emersa in tutta la sua vastità di risorse e di attenzione psicologica alle contorte, spiazzanti atmosfere almodovariane.
In questo particolarissimo “horror” del regista spagnolo, ribolle in Iglesias un’ispirazione ardentemente classica e strumentalmente inquieta (comune a moltissimi compositori contemporanei del cinema iberico), declinata fin dall’assolo paganiniano del violino di Vicente Huerta con cui si apre “Los vestidos desgarrados”, violino che viene subito circondato da nevrotici e amplissimi arpeggi di celli e bassi, creando un’atmosfera di sommovimento interiore quasi insostenibile. Il ruolo delle parti solistiche, utilizzate spesso in chiave concertante all’interno di un’orchestrazione scarna e ansiogena diretta dallo stesso compositore, si rivelerà centrale in questo score che coniuga una concitazione a tratti convulsa con improvvise distese liriche e aperture melodiche, prevalentemente confidate al pianoforte di Javier Casado (“Tema di Vera”). Gli archi si esprimono per tremoli velocissimi e insistiti, accordi secchi e bruschi, e dialogano con gli altri strumenti da una posizione in qualche modo di vigilanza, pronti ad aggredirne gli interventi in ogni momento con emersioni virtuosistiche (“La convivencia”) che ne amplificano la portata allarmante.
Sembra a volte che, d’intesa col regista, Iglesias ammicchi ad alcuni stereotipi della horror music (“El asalto del hombre tigre”), repertandone i luoghi più comuni: intervalli irregolari, crescendi in tremolo, frasi spezzate, pulsazioni percussive irrequiete, interventi elettronici “alieni” alternati a secchi e sommessi accordi ribattuti dei fiati. Non è certo un atteggiamento meramente parodistico, né compiaciutamente citazionistico: piuttosto un lavorio dall’interno in costruzioni psicologiche e strumentali che Iglesias restituisce decantate e nello stesso amplificate nel proprio potenziale evocativo. “Una patada en los huevos”, che mobilita le acrobazie del violino solo su un “mosso” incalzante di tutti gli archi, ci riporta invece alla carnale, sanguigna impulsività delle tematiche più inquietanti del film: il corpo, l’identità, la manipolazione, la sessualità. Siccome La pelle che abito è anche una partitura concepita per contrasti, in “Prometeo encatenado” le dissonanze smorte del pianoforte e degli archi ai vari registri svelano l’aspetto più intimamente desolato dell’horror almodovariano, essenzialmente costituito da solitudine e dannazione interiore: si noterà come il compositore non alzi mai la voce, e le dinamiche si spingano raramente oltre il mezzoforte, in un rifiuto programmato di qualsiasi forma di enfasi sonora. Anzi, la rarefazione è a tratti la formula vincente, come in “La pared transparente”, che inizia facendo dialogare liricamente il pianoforte di Casado (anche coproduttore della musica) e il violoncello di Anthony Pleeth: si percepisce un’atmosfera intimamente notturna, psichicamente cupa, foriera di attese che si esprimono in lunghe note tenute, sotterranee percussioni e magari il suono lunare, imprevisto del corno francese con sordina di Andy Crowley (“En el calar de la noche”, brano non senza influenze milesdavisiane).
I baricentri tonali non sono sempre garantiti ma si mescolano a fragili oasi leitmotiviche (“Libertad vigilada”) conferendo alla partitura un colore opaco, ambiguo e scarsamente rassicurante: il ruolo sbalzato, tagliente degli archi in moto perpetuo in “Duelo final” (o nel breve, folgorante “Tributo a Cormac McCarthy”, raro caso di un tema conduttore costituito più da una scelta ritmica e timbrica che melodica), s’interseca con le lunghe, minacciose pause che separano il magma di accordi funebri a seguire, i crescendi incombenti, le continue interruzioni, la luminosa presenza del violino in quel bel tema doloroso dell’inizio, i mesti accordi discendenti del pianoforte. In “Royo e negro” per la prima e ultima volta sentiamo i toni farsi incandescenti, grazie ad una deflagrazione caotica dell’orchestra con alcuni violentissimi effetti elettronici, che vanno però a sostenere il terrificante “flautando” dei violini, in uno dei momenti senz’altro più gravidi di tensione dello score, prima del riaffacciarsi perorante del violino solo.
Il breve, lugubre epicedio di “La pared diario” precede i “Creditos. La identidad inaccesible” – che restituisce al massiccio spessore degli archi (con un contributo solistico travolgente del pianoforte) il loro ruolo totalmente protagonistico in una partitura in continuo movimento e dai colori perturbanti – alla quale bisognerà aggiungerà la presenza di cinque corpi “estranei” ma fortemente contestualizzati nel film: due brani, “Por el amor de amar” e “Se me hizo fàcil”, della cantante spagnola Concha Buika (candidata al Grammy nel 2008 con l’album “Niña de fuego”), suggestiva esponente di una fusione al calor bianco fra ritmi flamenco e jazz; “Between the bars” di Chris Garneau, cantautore americano che mescola pop, folklore, barocco e quant’altro; “Shades of marble” di Anders Trentmöller, produttore, musicista e strumentista elettronico danese; e infine una carezzevole, insinuante e nostalgica rivisitazione da parte dello stesso Iglesias della leggendaria “Petite fleur”, scritta sessant’anni fa dal clarinettista e jazzista americano Sidney Bechet e divenuta una sorta di ballata-cover universale per ogni tipo di strumento.
Come si vede, artisti e contributi all’insegna di quella “contaminazione”, di quella “impurità” fertile ed entusiasta di cui Almodóvar è il poeta, e Iglesias il suo scudiero musicale.
Titolo: La pelle che abito (La piel que habito)
Compositore: Alberto Iglesias
Etichetta: Quartet Records, 2011
Numero dei brani: 20 (15 di commento + 5 canzoni)
Durata: 73′ 08”
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