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Soundtrack: "Predator"/"The Avengers" di Alan Silvestri

18 giugno 2012 Soundtrack 1 Commento
Roberto Pugliese, 21 Maggio 2012: * * * * ** * *
In collaborazione con Colonne Sonore

Separate da 25 anni di cinema, queste due colonne sonore sono unite dall’arte di uno dei maggiori compositori cinematografici dei nostri tempi, e sono l’occasione perfetta per riflettere su come il concetto di blockbuster hollywoodiano si è evoluto…


Tra queste due partiture non intercorre solo un quarto di secolo, durante il quale la figura di Alan Silvestri si è ribadita e consolidata come una delle personalità di maggior spicco e riconoscibilità nel parco talenti della musica per film statunitense dei nostri tempi, ma si erige anche una profonda metamorfosi nel concetto stesso di blockbuster hollywoodiano d’azione, tra fantasy e film di guerra – alla cui categoria in fondo entrambi i titoli, a proprio modo, afferiscono – e di conseguenza si impone anche una riflessione sull’evoluzione (se vi è stata) di Silvestri stesso come compositore, dato che il musicista di origini piemontesi rappresenta di questo genere uno dei pilastri costitutivi. Sotto questo profilo, la pluridecennale affiliazione tra Silvestri e il cinema di Robert Zemeckis costituisce solo uno, per quanto fondamentale, degli aspetti di analisi o se preferite dei punti di osservazione. In tutto questo capitolo, infatti, la forte personalità autoriale e linguistica del regista ha sicuramente condizionato e incentivato il diluvio di invenzioni melodiche, di idee strutturali, di sviluppi armonici e di aggregazioni strumentali che caratterizzano senza possibilità di equivoci il “Silvestri’s touch”: le furibonde progressioni e i crescendi insostenibili, le frasi secche, brutalmente spezzate, le apocalissi di violenza sonora scatenate in una frazione di secondo e in altrettanto tempo zittite, in altri termini gli spiazzanti ed estremi contrasti dinamici, i guizzi fulminei dei violini verso l’alto dove si fermano ad attendere qualcosa spesso di imprevedibile, il levarsi improvviso di Leitmotiv struggenti, sommessi e obliqui (occorrerà citare Contact o Cast Away?), colorati di un pervasivo cromatismo, la predilezione per strumenti brillanti e acuti (soprattutto in percussione) contrapposti spesso a scansioni ossessive e martellanti dei registri gravi…
Tutto ciò – e molto altro – fa parte diciamo così del “parco risorse” di Silvestri, che nell’orizzonte del dopo-Williams e del dopo-Goldsmith sembra essersi ritagliato uno spazio che non corrisponde esattamente né all’una né all’altra eredità dei due grandi maestri, preferendo piuttosto una via che tende a risalire indietro, alla vulcanica e irrefrenabile creatività descrittiva e timbrica di maestri come Ròzsa o Waxman, ovviamente con effetto moltiplicatorio sul fronte dei piani sonori e delle risorse orchestrali impiegate. Nel corso degli anni, attraverso alcuni score che sono altrettanti picchi del suo talento e della sua intransigenza concettuale, Silvestri ha avuto occasione di affermarsi come un compositore ultimativo, senza appello nella costruzione di atmosfere incombenti e di cataclismi sonori di portata tellurica, peraltro dando sempre prova anche di un fantasismo e di una versatilità straordinari: si pensi a titoli come – alla rinfusa – l’infernale Verdetto finale, i “morriconiani” e ammiccanti Pronti a morire e The Mexican, il concitatissimo Blown Away – Follia esplosiva con uno dei più disperati e disarmanti temi mai usciti dalla sua penna, lo score al decimo grado della scala Richter di La mummia – Il ritorno, capace di non far rimpiangere il primo capitolo goldsmithiano, il ribollente e nucleare Van Helsing, citazionistico e torrenziale.

Il capitolo Predator (primo e secondo) costituisce una tappa fondamentale di questo percorso, e la rimasterizzazione spettacolare e integrale che la Intrada ci offre ora del primo, firmato per la regia da un genio dell’action movie da ultima spiaggia e nel contempo autoriflessivo come John McTiernan, è una chance preziosa per soffermarvisi. Compulsata precedentemente in varie antologie, pubblicata anni fa in modo un po’ underground con etichetta Alien, poi Varèse e un paio d’anni or sono in tiratura limitata in una special collection della stessa Intrada, questa partitura si distende ora in tutta la sua sinistra magnificenza – e con una “presenza” sonora in cui viene particolarmente valorizzata l’implacabile, affilata direzione d’orchestra dello stesso autore – e in tutta la sua ampiezza e particolarità. La coincidenza con l’uscita, sempre per Intrada, di The Avengers, recente esempio di quel “crossover” fra supereroi del fumetto che sta dilagando nella pochezza ormai disarmante di idee dell’action movie hollywoodiano (specie ove si consideri che, singolarmente presi, questi superman o superwoman non hanno sempre avuto grande fortuna al cinema: vedi Hulk o Capitan America, quest’ultimo proprio con musica di Silvestri), permette inoltre un raffronto fra l’ieri e l’oggi del musicista in un contesto assimilabile, utile a fornirci qualche elemento di analisi del suo entusiasmante e complicato itinerario creativo.

Oltrepassato il leggendario logo Fox composto a suo tempo da Alfred Newman e genialmente “sfregiato” nell’accordo finale distorto dall’orchestrazione di Elliot Goldenthal, a connotare la mutazione “mostruosa” e da incubo di alcuni generi forti hollywoodiani (da Predator appunto ad Alien³), la prima cosa che colpisce all’ascolto è l’apparente, quasi nevrotica frammentarietà della partitura: una catena di segmenti ossessivi, caratterizzati dalla fortissima, sismica impronta ritmica e da una concezione elementare, quasi primitivistica delle armonie, su cui spiccano due motivi conduttori individuabili, una lunga e sinistra frase accordale a scendere, tipica del “modo” silvestriano, preferibilmente affidata alla minacciosa immanenza degli ottoni ma volentieri rinviata anche agli archi, che potremmo definire tema della sopravvivenza; e un pesante, lugubre, elementare tema negli ottoni associato al Predator. Intorno a questi noccioli incandescenti si raggruma una serie di interventi deflagratori, sin dai “Main Title”, dove al rombo sotterraneo iniziale si sovrappone una prima esplosione sonora seguita da ragnatele fluttuanti degli archi e dalla prima comparsa dell’unico “effetto” elettronico presente nello score: un riverbero picchettante, tambureggiante e iterato che connota la “alienità” del protagonista-cacciatore di cui al titolo. L’eroico e stagliato tema per ottoni, rinforzato da una energica e solare frase degli archi e da un violento passaggio ritmato costruito per frasi spezzate e raffiche, declina così immediatamente la qualità e quantità delle forze in campo. La ripartizione timbrica, spesso polverizzata in frasi brevissime rimbalzate da un settore all’altro (“Something else/Cut’em down/Payback time”) serve a creare un climax di tensione continua e insostenibile, un’attesa permeata di trappole sonore pronte a scattare a ogni angolo e senza preavviso, da un ostinato in pianissimo delle trombe a un breve disegno veloce e sussurrato dei bassi, da uno svolazzante disegno degli archi (compulsati anche in glissandi e flautandi di herrmanniana memoria) a una mesta frase del corno inglese che finisce in siderali percorsi dei violini o in pedali sovracuti destinati a venire percossi e trafitti da improvvisi fortissimi di percussione e ottoni.
Una strategia di vero terrorismo sonoro, quella applicata da Silvestri, che passa attraverso un virtuosismo e a una spregiudicatezza orchestrale (ciò che viene richiesto a trombe, tromboni e tube qui non ha limiti in termini di agilità, staccati e forza di penetrazione dinamica) semplicemente stupefacenti. Pianissimi e fortissimi, momenti di stasi totale e repentine, furiose accensioni ritmiche si alternano secondo un’ingegneria della suspense sonora raramente così perfezionata ma all’interno della quale le ragioni e le procedure della musica pura non arretrano mai (si pensi alla costruzione e allo sviluppo di un brano come “The Truck”). Probabilmente è questo il tratto più forte e coinvolgente della scrittura silvestriana: la coincidenza fra capacità di stare sulle immagini e l’irrinunciabilità delle ragioni dell’orchestra, della forma sonora, dell’architettura della partitura. “Girl’s escape”, il suo moto perpetuo in pianissimo degli archi, lo scatto improvviso e il subitaneo spegnersi, il suono lontano e foriero di minaccia degli ottoni, l’ascensione delle armonie e lo sciogliersi degli archi in ampi tremoli e arpeggi preparano sapientemente il ritmo violento di marcia (ostinato dei bassi e secchi accordi di ottoni e percussione) sui quali si affacciano sia il teso, drammatico e strascicato tema “della sopravvivenza” sia gli ostili baluginii elettronici del cacciatore. I demoniaci, lividi trilli degli ottoni che, in un fulminante “progress”, accompagnano la “Blain’s death” sono un altro frammento strumentale che va ad aggiungersi all’arroventato puzzle silvestriano, mentre “What happened?” si distende in ampie frasi iniziali per poi riproporre il tema della sopravvivenza e interromperlo bruscamente. Rara oasi lirica è “He’s my friend” con un tema da omaggio funebre marziale esposto dalla tromba in sordina e poi ripreso dall’oboe: lo si riudrà in “We’re gonna die”, su un tremolo d’attesa di violini e una leggerissima frase in salita che presagisce già Le verità nascoste, prima che il tutto riprenda l’andatura frenetica, incalzante e sbalzata che costituisce l’innervatura principale dello score.
Di nuovo il tema della sopravvivenza negli archi, drammatizzato dal contrappunto squadrato e marziale degli ottoni e su ritmo di tamburi, in “Building the Trap”, mentre in “The Waiting” le frasi strascicate, “portate” degli archi si bloccano su un tremolo in pianissimo e vengono poi tritate in una saettante, rapidissima chiusa al calor bianco. La rarefazione delle idee contrapposta a una suspense timbrica pressoché incontenibile tocca l’apice forse in “Can you see him?”, con gli archi in sovracuto a tremolare e paralizzarsi in pedali o glissandi spettrali sugli armonici, tra frustate della percussione e dissonanze malvagie dei legni. Sempre più declinante e rassegnato, il tema della sopravvivenza passa da archi a legni, precipitando verso l’ineluttabile, in “Dillon’s death” e confluendo in una cupa marcia funebre accordale, mentre un rintocco di campane raddoppia gli ottoni nell’incipit solenne di “Billy and Predator”, preannunciando il redde rationem e preparando lo sfondo maestoso su cui si risolleva in progressioni inarrestabili il tema principale negli archi: poi dissonanze estreme e nuove indiavolate accelerazioni tornano a dominare il paesaggio sonoro.
Il lunghissimo (quasi dieci minuti) “Dutch builds trap” consta di una struttura stratificata, che allinea diversi elementi. Un senso di preparazione e di snervante attesa domina nei primi minuti, con un sommesso ritmo scandito dai bassi che sostiene sia gli accordi affermativi e ascendenti degli ottoni che le apparizioni del tema della sopravvivenza negli archi: la geometria del pezzo è inesorabile, la sua costruzione per blocchi simmetrici governata con mano ferrea. Il ritmo di base è mantenuto costante, conferendo all’insieme una ineluttabilità non resistibile, e al suo interrompersi non possono che seguire tre schiaccianti e ultimativi accordi di timpani e ottoni. Poi il tremolo dei violini e le dissonanze dei legni aspettano pazienti, seguiti da disegni malati degli archi, non lontani da certe soluzioni pendereckiane, per terminare con l’ennesima spirale sonora in salita. “Predator injured” introduce, con un breve inciso pendolare, la serie dei lunghi pedali acuti dei violini, vero “marchio” della partitura, nonché un accordo altrettanto lungo dal quale si diparte uno stacco furioso degli ottoni seguito da nuovi effetti disturbanti degli archi, in un crescente senso di dissoluzione e disfacimento sonoro ottenuti da Silvestri attraverso tecniche direttamente mutuate dall’avanguardia storica. Elemento, questo, ancor più presente in “Hand to hand combat”, che però verte su un ostinato dei timpani e una nota in crescendo dei corni destinati a precipitare nell’ennesima scansione staccata e violenta degli ottoni dove interferisce una figura stilettante di tre note dei violini, accerchiata e soffocata dallo stringersi intorno di tutta l’orchestra. “Predator’s death” è lacerato da continui sbalzi timbrici e deflagrazioni degli ottoni, ma si lascia andare poi, tra eterei accordi dei violini, a una struttura da epicedio funebre, ritmato da timpani e ottoni acceleranti e rinforzato da figurazioni concitate degli archi.
Una quiete solenne e ariosa, dalle opzioni armoniche wagneriane, s’impone in “The Aftermath/The Pick-Up and End credits”: riappare nella tromba in sordina quella specie di variazione sul “Silenzio” militare che era “He’s my friend”, mentre la ricapitolazione conclusiva ripropone gli effetti elettronici di Predator ma anche, intatto, il suo lugubre tema negli ottoni, in un riassemblaggio finale che termina con l’ennesimo scatto compulsivo dell’orchestra, privo del minimo trionfalismo.

Venticinque anni dopo le tecniche e le procedure di Silvestri non sono sostanzialmente cambiate, e il loro effetto risalta tanto più in quanto le committenze, all’interno del genere, sono qualitativamente piuttosto declinate. Il compositore non si tira indietro dinanzi a compiti anche puramente riempitivi (Captain America), nei quali peraltro il suo contributo è scarsamente valorizzato anche in sede di montaggio e missaggio: altrove (Van Helsing), il rutilare fanta-horror delle sceneggiature e degli effetti è occasione per un dispiego di forze, per una potenza di fuoco orchestrale destinati a rimanere scolpiti nella memoria, e a caricare i film spesso mediocri di un impatto emotivo folgorante. Una partitura come The Avengers, perfettamente in linea con questa tendenza, dimostra chiaramente come l’ispirazione di Silvestri sia ancora una volta guidata dalla fascinazione estrema per le infinite risorse di un’orchestra smisurata (alla cui guida c’è sempre, risoluto e spietatamente nitido, il compositore), chiamata a interventi spesso “corti”, urticanti, sbalzati, a impasti violentemente conflittuali (il registro grave e quello acuto di tutte le sezioni sono spesso e volentieri giustapposti), anche se in tempi più recenti questo va a discapito di quell’impronta lirico-evocativa che dominava nelle più grandi partiture degli anni ’80 e ’90.
L’impatto iniziale con questo score è impressionante, specificamente dal punto di vista delle ondate sonore da cui si è travolti: nel dettaglio, lo spiegamento di forze degli strumenti a fiato è colossale, straussianamente schiacciante (si ascoltino i corni in fa a tutta forza e la brutalità metallica delle asserzioni percussive di “Tunnel Chase”, il cui inizio è forse la cosa più silvestriana dell’intero score), e l’interazione tra i piani sonori più semplificata e meno frammentata che in passato. L’utilizzo degli effetti e dell’elettronica è più massiccio che in Predator, e meno “mirato”: in questo Silvestri segue l’andazzo corrente, ma quando è l’orchestra a integrarsi, in tutta la propria imponenza, con il computer (“Stark goes green”), magari attraverso il severo eloquio della massa di archi, ci si rende conto di trovarsi di fronte tuttora a una marcia in più, non foss’altro che dal punto di vista della padronanza dei materiali. L’adesione di Silvestri all’impronta iperbolica ed effettisticamente bulimica del blockbuster di Whedon passa attraverso una muscolarità orchestrale a tutto tondo (“Hellcarrier”), nella quale però è capace di farsi luce magari un breve, intenso assolo di violoncello (“Subjugation”, brano dall’incipit semplicemente terrificante) subito travolto a colpi di martello e di percussioni di ogni ordine e grado. Permane uno schema estremamente parcellizzato e volutamente disomogeneo, quasi a blocchi separati, che però – a differenza del modello di venticinque anni or sono – appare anche come il frutto di un’opzione complessiva di economia del soundtrack, dove a fronte di un intasamento senza soluzione di continuità della musica (il vizio letale di troppo cinema soprattutto statunitense contemporaneo), in luogo di pause o stacchi si prediligono momenti di “stasi” ottenuti semplicemente immobilizzando l’orchestra o ricorrendo a effetti synt. In altre parole Silvestri, se non adeguatamente stimolato da un climax originalmente adrenalinico com’era nel caso di McTiernan (o anche di Sommers, altro suo regista sodale: per non parlare ovviamente di Bob “Forrest Gump” Zemeckis), si uniforma a una genericità che non diviene piattezza solo in virtù delle sue indomite e inconfondibili doti di orchestratore, e di quel “touch” che continua ad affiorare in alcune progressioni armoniche irresistibili o nei crescendi allucinanti e nelle cascate epiche che egli sa far precipitare dalla propria orchestra (“Assault”, dove gli ottoni si producono in un tema scultoreo su un ostinato ritmico degli archi). Decisamente più interessanti pagine come la limpida “They called it”, dominata dalla pensosa fissità dei primi violini inchiodati a un pedale acuto su cui i secondi divagano in un’accorata frase discendente ricorrente, ripresa dalle viole mentre sullo sfondo rintocchi di percussione non si fanno dimenticare. Sono momenti di concentrazione – rari – in cui Silvestri sembra trattenere le forze a sua disposizione prediligendo un’atmosfera di sospensione e di ansietà, preludi solo a nuove incontenibili esplosioni di energia (“Seeing, not believing”) in cui lo scontro fra la titanica prova di forza degli ottoni e il trattamento aggressivo e moderno degli archi (vedi anche un episodio del furibondo “I got ride”) produce autentica lava sonora. Certo, s’è già osservato, si rimarca l’assenza di idee tematiche forti, sostituite da elementi strutturali e procedure di modulazione (“Assemble”, peraltro sospinto dal turbo delle percussioni elettroniche e concluso da una gigantesca perorazione degli ottoni) in cui si riconosce il musicista dei tempi (e dei film) migliori: un compositore, cioè, che raramente si autoconfinava a “commentare” rumorosamente situazioni per quanto estreme e fantastiche (la memoria va all’intransigenza con cui il sommo Goldsmith rimase splendidamente se stesso fino alla fine, anche nelle ultime partiture pure per film non certo memorabili), e che riusciva a delimitare entro l’alveo di un’ispirazione fortissima, personale e fortemente caratterizzata qualsiasi pulsione o richiesta di potenza. “One way trip”, con la sua alternanza fra propulsioni incendiarie, crescendi assordanti e dense, disperate meditazioni degli archi capaci di sollevarsi in scorci leitmotivici toccanti, sembra evocare ancora quella stagione, mentre “A promise”, che inizia come una imprevedibile ballata per chitarra e quartetto d’archi, si sviluppa severamente nell’alveo di un congedo solenne, con archi e ottoni all’unisono su uno dei pochi, granitici temi della partitura. C’è tempo ancora per salutare con “The Avengers” i supereroi di cui al titolo, in un pezzo di bravura orchestrale che delega agli strepitosi corni il compito di ululare per un’ultima volta il tema principale.

La coerente e originale longevità artistica di Alan Silvestri non è in contraddizione con l’ovvia discontinuità di valore fra partiture come quella di Predator e quella di The Avengers: quest’ultima semmai dimostra solo come anche il compositore per il cinema sia un artista immerso nel proprio Zeitgeist, nel proprio spirito del tempo, all’interno del quale l’orecchio attento sa cogliere gli elementi di riconoscibilità e di stile, per quanto confusi e talvolta dispersi nelle esigenze soffocanti di una commerciabilità che da tempo, ormai, non riesce più nemmeno a ripagare se stessa.


Titolo: Predator (Id.)

Compositore: Alan Silvestri

Etichetta: Intrada, 1987

Numero dei brani: 20

Durata: 75′ 32”


Titolo: The Avengers (Id.)

Compositore: Alan Silvestri

Etichetta: Hollywood/Intrada, 2012

Numero dei brani: 19

Durata: 75′ 17”


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Attualmente c'è 1 commento a questo articolo:

  1. Plissken ha detto:

    Considerando che la colonna s. di “Predator” è a mio personale avviso una delle migliori di tutti i tempi, non posso proprio esimermi dall’intervenire, in primis complimentandomi con l’autore dell’articolo. Visto che conosco detta colonna sonora a memoria o quasi, credo di potermi permettere di affermare che la disamina della partitura è, nel complesso e nei suoi singoli “episodi”, di spessore inusuale e oserei dire eccezionale.

    Il Cassani ha ribadito tempo addietro come dette recensioni riguardino la musica a sé e vadano estrapolate dal contesto filmico: il concetto mi è chiaro, d’altronde credo sarebbe difficile per chiunque (figuriamoci per me)aggiungere qualcosa in tal senso vista la completezza dell’intervento del Pugliese. Mi “limito” quindi a ribadire come, alle orecchie di un appassionato, il lavoro svolto da Silvestri assuma valenza eccelsa non solo per la musica in sé, ma anche per l’aspetto sinergico con la pellicola, a parer mio di carattere singolare (e non così scontato).
    Volendo “analizzare” invece la partitura di “The avengers” personalmente vi ravviso senz’altro l’ottima valenza, ma una minore specificità, se mi mi passa il termine, e qui sta il punto. Intendo dire che le musiche, al di là del valore intrinseco, potrebbero essere tranquillamente adottate da una qualsiasi altra pellicola “action”, così come il film potrebbe essere stato girato da un qualsiasi neoregista. Ciò ha portato ad un film che considero mediocre, in cui la colonna sonora, per quanto “d’Autore”, non riesce ad innalzare il livello. Immagino che per un compositore, per quanto bravo, non sia facile attingere alla propria vena artistica avendo come musa una (mezza) schifezza di sceneggiatura.

    Il discorso invece assume un tono diverso nel film di Mc Tiernan: la (splendida) colonna sonora è talmente radicata nel contesto da risultare inscindibile; non riesco ad immaginare il soundtrack di “Predator” in nessun’altra pellicola: questa è la differenza rispetto ai lavori di altri compositori e dello stesso Silvestri: in “Predator” si è di fronte ad una sorta di rara simbiosi.

    Riguardo il concetto di blockbuster hollywoodiano, temo si sia in presenza di una IN-voluzione piuttosto che “EV”.
    Anche se l’arte del Silvestri, presa a sé, probabilmente non ne risentirà, l’efficacia della stessa sì, se le pellicole continueranno ad essere poco incisive. Mi ripeto dicendo che delle musiche “su commissione” probabilmente saranno tanto più valide quanto migliore è la pellicola, altrimenti da dove trae ispirazione il povero compositore? 🙂

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