Soundtrack: "Solaris" di Cliff Martinez
Roberto Pugliese, 11 Febbraio 2011: * * * * ½ |
In collaborazione con Colonne Sonore
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Erroneamente definita all’epoca come minimalista, la colonna sonora composta da Cliff Martinez per il film di Steven Soderbergh è in realtà ben ripartita tra suono elettronico e suono orchestrale, in una perfetta miscela di atmosfere che oggi rivive in un’ottima versione rimasterizzata…
Nove anni fa, la collaborazione tra il compositore Cliff Martinez e il regista Steven Soderbergh, iniziata nell’89 con Sesso, Bugie & Videotape e destinata a proseguire per altri nove titoli (compreso l’imminente Contagion, le cui riprese sono in corso), raggiunse in Solaris probabilmente il suo apice. Per l’ex percussionista, oggi 57enne, già assoldato dai Weirdos e dai Red Hot Chili Peppers, non si trattava assolutamente di stabilire un’impossibile e inutile competizione con le architetture impenetrabili e iperuraniche d’avanguardia edificate da Eduard Artemiev per l’originale tarkoskiano del ’72, ma di individuare una strada personale, indipendente, alla costruzione di un clima sonoro che rendesse contemporaneamente conto dell’asettica, ossessiva, incombente presenza delle tecnologie e dello smarrimento assoluto e struggente dei personaggi. Ne scaturì uno score a torto definito “minimalista”, funambolicamente ripartito tra suono elettronico e suono orchestrale in una perfetta miscela di atmosfere, a suo tempo edito con etichetta Edel. Fondamentale vi si rivelò il compito dell’ingegnere del suono digitale Mike Matessino, anche restauratore e curatore di soundtrack complessi, sia nella contemporaneità che nel passato, attentissimo sia al recupero delle caratteristiche originarie di una partitura sia alla necessità di intervenire spesso per un delicato lavoro di ripristino di alcune – oggi sempre meno accettate – imperfezioni tecniche.
L’attuale riedizione di Solaris della La-La Land Records non è una “expanded edition”, non vi sono brani in più rispetto alla versione originale, ma è una stupefacente rimasterizzazione digitale dei track originari rivolta a una perfezione d’ascolto assoluta, sotto l’egida produttiva di Nick Redman e di nuovo coinvolgendo l’imprescindibile Matessino, arricchita inoltre da un booklet di 16 pagine riccamente illustrato, disegnato da Jim Titus e impreziosito da un lungo e articolato saggio della studiosa Julie Kirgo riguardante sia il film di Soderbergh sia l’analisi della partitura di Martinez.
Si è parlato molto, e lo ricorda proprio la Kirgo, dell’influenza esercitata su questo lavoro dalle composizioni “siderali” di György Ligeti come “Lontano” e “Atmospheres” (non a caso utilizzate da Kubrick nel suo 2001: Odissea nello spazio), soprattutto per l’utilizzo di fasce sonore fisse, quasi prive di modulazioni armoniche, con accordi “morti” (l’incipit di “Is that everybody wants”) sui quali cominciano a pulsare indistintamente effetti percussivi sofisticati e tastiere ossessivamente iterative, mentre gli archi intervengono esclusivamente con lunghissimi pedali e serie di accordi, o inquietanti tremoli a salire (“First sleep”), senza adombrare nemmeno allo stato larvale l’idea di un Leitmotiv o di una qualsivoglia cellula melodica.
Ma Solaris fu per Martinez anche un terreno laboratoriale molto stimolante, dove sperimentare assemblaggi sonori inconsueti e fonti timbriche inedite o dimenticate, come i tamburi d’acciaio di Trinidad o il Gamelon indonesiano. Ecco allora, ad esempio, il ruolo protagonistico del cosiddetto Crystal Baschet, o Crystal Organ, strumento inventato negli anni ’50 da due fratelli francesi, usato da alcuni compositori dell’avanguardia transalpina e della “musique concrète” come Pierre Schaeffer, e consistente in 54 cilindri di vetro intonati su scala cromatica, che devono essere suonati con le dita inumidite, al fine di produrre vibrazioni. Il suono che si ottiene è simile a quello della celebre “glass armonica” o armonica a bicchieri, nota anche a Mozart e Donizetti. La vibrazione prodotta dai cilindri viene fatta passare in un blocco di metallo attraverso uno stelo, dalla cui lunghezza dipende la frequenza sonora prodotta. Il risultato, ad esempio in un brano come “Will she come back” dove questo strumento è protagonista, è uno straniamento acustico totale, una sorta di evaporazione della memoria fonica convenzionale nella quale intervengono, con sapiente contrasto, i severi e quasi luttuosi archi dell’orchestra magistralmente diretta da Bruce Fowler (“Death shall have no dominion”, brano dal climax davvero allarmante e dal pathos orchestrale irresistibile, il cui titolo proviene da una poesia di Dylan Thomas motivata dal racconto).
Martinez organizza la partitura per procedure di sottrazione, non di accumulo, ma si tiene ben lontano dall’astrazione allo stato puro dell’originale artemieviano. Anche perché è dichiarato, qui, l’intento di seguire comunque il tormentato percorso interiore e sentimentale del protagonista interpretato da un magnifico George Clooney. Quindi il substrato emotivo è tanto più spesso e intenso quanto più la musica si tende e si immobilizza in lunghissime linee di intersezione, come nei dieci minuti abbondanti di “Hi Energy proton accelerator”, forse il capolavoro dell’album, brano capace di generare una tensione e un’inquietudine in proporzione inversa ai mezzi dispiegati, e la cui traccia emozionale consiste in un susseguirsi di accordi minori degli archi che tentano un dialogo quasi impossibile con la minacciosa “alterità” del suono digitale, sino a chiudersi in una trasognata frase dei violini. In sintesi estrema, uno score di pura avanguardia nella concertazione dei propri vari elementi e nella coraggiosa vena sperimentale che lo anima, ma anche spiccatamente appassionante e suggestivo proprio per il rifiuto di rifugiarsi nelle più facili e obsolete convenzioni del “commento d’atmosfera”.
Titolo: Solaris (Id.)
Compositore: Cliff Martinez
Etichetta: La-La Land Records, 2010
Numero dei brani: 11
Durata: 45′ 35”
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