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Soundtrack: "The Artist" di Ludovic Bource

5 dicembre 2011 Soundtrack 4 Commenti
Roberto Pugliese, 2 Dicembre 2011 : * * * * *
In collaborazione con Colonne Sonore

La storia d’amore tra un divo del cinema muto sul viale del tramonto e una giovane stella nascente, raccontata in un film particolarissimo, offre al compositore Ludovic Bource l’occasione di realizzare una partitura rispettosa del passato ma dalla grande vena creativa…


Un film muto, ambientato nel mondo del cinema muto, sulla storia d’amore fra un divo al tramonto e una giovane stella nascente, destinata a sfondare nell’era del sonoro. Come se E’ nata una stella incontrasse l’epoca di Rodolfo Valentino, Chaplin e Fairbanks Sr. Una volta che si sia scartata l’opzione più facile e comoda (servirsi di musica d’epoca), non serve sforzarsi per capire quale terreno di coltura, di esercizio e – perché no – di divertissement possa costituire una simile occasione per un compositore contemporaneo che sia in possesso dei requisiti fondamentali per guardare al passato in chiave ri-costruttiva e citazionistica. Anche perché in un contesto simile la musica diviene, va da sé, protagonista unica e assoluta. Ghiottissima occasione dunque per Ludovic Bource, arrangiatore e musicista francese della generazione dei quarantenni, scarsissimamente noto fuori patria e legato a doppio filo al regista franco-lituano Michel Hazanavicius, con cui ha iniziato a collaborare dapprima per alcuni spot pubblicitari, poi sin dall’esordio di Mes amis (1999) per proseguire con un paio di strepitose parodie spionistiche dedicate al personaggio dell’agente segreto OSS117 (un clone maramaldesco di 007) creato da Jean Bruce. Ma questo film, che all’ultimo festival di Cannes è valso al protagonista Jean Dujardin (attore-feticcio del regista) il premio per la miglior interpretazione maschile, rappresenta in questo sodalizio un salto di qualità per le sue spericolate ed energiche opzioni stilistiche. Innanzitutto l’assenza di dialoghi, come dicevamo: un elemento che, applicato al cinema della postmodernità, suscita immediatamente un effetto di spiazzamento (ricorderemo anche, in tempi abbastanza recenti, Juha di Aki Kaurismaki, 1999, con musiche di Anssi Tikanmäki); poi una fotografia accuratamente in bianco e nero, puntigliosamente vintage ma senza nessun effetto-nostalgia; infine il consapevole e sarcastico saccheggio di più generi, dal mélo al comico all’avventuroso, con la conseguente necessità di adeguarvi la musica.

Con grande onestà intellettuale, Bource confessa – nella bella intervista rilasciata sul bootlet dell’album – di aver svolto per questo score un immenso e defatigante lavoro preparatorio, consistito soprattutto nell’ascolto minuzioso e reiterato di moltissima musica cinematografica della Golden Age, da Steiner a Waxman a Herrmann, per risalire poi alle radici sinfoniche tardo-ottocentesche di questo patrimonio, da Prokofiev a Debussy a Ravel in particolare. Un lavoro non facile per lui, autodidatta e non particolarmente avvezzo al sinfonismo classico, ma che – anche grazie alla supervisione del produttore Jerome Lateur e a una squadra di orchestratori ferratissimi e capitanati da Jay-Alan Miller – si è poi tradotto in un sensazionale, squisito affresco di musiche “a la manière de”, cui il ruolo fondamentale della scintillante Brussels Philharmonic the Orchestre of Flanders diretta con impeccabile e sottile adesione da Eric Van Tiel ha garantito un surplus di valore e di fascino estetico.

Dunque una musica che evoca – parole sempre di Bource – molti “fantasmi”, attraverso i cui brani viene omaggiata con affetto, ironia e formidabile padronanza contestuale un’intera tradizione compositiva. La breve Ouverture, una fanfara gioiosa e imperativa di stampo newmaniano, lo dichiara senz’ombra di dubbio fin dall’incipit: e “1927 A Russian affair”, muscoloso pezzo da concerto per un organico vastissimo dove dilagano il ruolo degli ottoni e l’irrefrenabile dinamismo degli archi, è in palese debito con alcuni dei momenti più infuocati e incontenibili del lavoro di Max Steiner. Ma il substrato di commedia sentimentale sofisticata ispira a Bource anche straordinarie, frizzantissime reverenze a quell’eloquio strumentale brillante e danzante, molto “viennese” (ne erano maestri musicisti come Friedrich Hollander e lo stesso Steiner, o Erich Wolfgang Korngold), come il baldanzoso “George Valentin” e “Pretty Peppy”, pagine dalla strumentazione premeditatamente d’antan dove l’ironia metatestuale va a braccetto con un sincero amore retrospettivo (la tessitura jazz-sinfonica e la liquida trasparenza del suono di arpe, xilofoni, pizzicati, tremoli di violini, batteria in un brano come “Fantaisie d’amour” sono davvero irresistibili).

L’anima francese, la sensiblerie che alberga in ogni compositore cinematografico d’Oltralpe, scorre liberamente nella sorridente malinconia del “Waltz for Peppy” o nella suadente ballabilità di “In the stairs”, dove la scrittura divisa degli archi torna a ricordare certe struggenti aperture liriche di Steiner o Waxman; eppure, nel solitario monologare dell’oboe di “1929” ma soprattutto nella bellissima ballata pianistica “Comme une rosée de larmes”, esplicitamente dedicata alla solitudine del protagonista e che Bource ammette ispirata all’Ode Saffica op. 94 n. 4 di Brahms (una delle epitomi del liederismo romantico) affiora una vena autonomamente pensosa e riflessiva del compositore francese, che va ben oltre la committenza citazionistica qui assegnatagli. E che l’atmosfera sia destinata a incupirsi lo si desume dalle fosche figurazioni di legni e ottoni, scandite dai timpani e sulle quali torna a farsi sentire spettrale il suono dell’oboe, di “The sound of tears”, la cui seconda parte – un lento per archi di valenza mahleriana – declina tinte dichiaratamente luttuose e presaghe. È in queste circostanze che Bource appare musicista completamente e genuinamente “europeo”, consapevole di una riflessione sulla forma e sulla drammaturgia sonora che si scioglie, si frammenta e si ricompone in frasi intense, laceranti e meditative. Tutto lo score esalta questa doppia anima, di rispecchiamento distaccato nel passato e di consapevole, desiderato “classicismo”, anche nell’ambiguità dei toni: “1931”, nuovo brano danzerellante e di impianto spensierato, si decanta in realtà in una nenia misteriosa su un pedale di violini acuti, sempre più rallentata e incerta, chiusa dai lugubri accordi del pianoforte.
Questo impianto, in cui materiali sonori in apparenza brillanti sembrano venire improvvisamente messi sotto il microscopio, è ancora più evidente in “Jungle bar”, pagina quasi essiccata per clarinetto basso, xilofono, pianoforte, batteria, o nel misterioso “L’ombre des flammes”, dove Bource mobilita alcuni espedienti della Nuova Musica (pedali dissonanti, tonalità barcollanti) unitamente a repertori della musica di genere (tremoli, accelerazioni, disegni velocissimi degli archi, saette virtuosistiche degli ottoni e dei legni): non più, e non tanto, musica che rifaccia in qualche modo il verso a una Hollywood anni Venti (dove, ricordiamolo, la musica ancora non esisteva), ma piuttosto un’architettura sonora e drammatica imponente (l’ultimo brano citato svela una potenza di fuoco orchestrale notevole, nonché la familiarità del compositore con nomi quali Strauss, Bruckner e Shostakovich), come la concepirebbe un compositore “classico” di oggi che si trovasse a lavorare con mezzi autonomi in quell’epoca storica e culturale.

La rielaborazione patetica e accorata del tema di Valentin da parte degli archi in “Happy ending…”, in un continuo gioco di sospensioni e interruzioni, vira il climax della partitura e del film verso un registro decisamente introspettivo e nostalgico, arricchito da invenzioni timbriche inesauribili (il disegno dei violini sugli armonici, il dialogo celesta-piano, la ripresa blanda del tema di valzer dagli archi contrappuntati da legni di sapore raveliano) e da un’orchestrazione che ricorda anche la lezione di alcune grandi formazioni del passato, perfettamente sospese e “contaminate” fra classica e leggera, come le orchestre di Arturo Mantovani o Percy Faith. Va da sé che l’intera partitura corre anche sul filo del rasoio del mickeymousing, ossia del raddoppio musicale dell’azione spesso mimandola (“Charming blackmail”, scherzoso e brillantissimo), in ciò non facendo che assecondare l’impianto strutturale fondativo del film. Ma le redini strutturali sono sempre saldamente in mano di Bource, e il governo dei materiali non viene mai delegato a un qualsiasi tipo di frammentarietà o disomogeneità.
Sensazionale la scrittura del breve, icastico “Ghost in the past”, pagina infuocata e violentissima, dove tube, corni e tromboni inchiodano i residui del tema di Valentin a uno sfondo quasi infernale; ottimo contrasto con il lungo “My suicide 03.29.1967”, dall’iniziale melopea per violini con sordina, in una scrittura che non può non confessarsi herrmanniana (La donna che visse due volte), di un lirismo struggente e sorvegliato, spalmato sull’intera sezione degli archi e senza alcun timore di sfociare, nella seconda parte, in un pathos cantabile che ci riporta – ancora – direttamente ad alcuni apici della drammaturgia musicale di maestri come Steiner, Korngold o Waxman, enfatizzando all’ennesima potenza anche il gioco di contrasti – sempre presente – tra l’impatto emotivo fortissimo della musica di Bource a volte consapevolmente a contrasto con l’asettica e affettuosa ironia del film.
“Peppy e George”, uno scatenato swing che Bource ha scritto per l’organico jazzistico dell’inesauribile Brussels Philharmonic (ma dentro il quale occhieggiano ancora materiali tematici dello score), è di fatto il solo cedimento all’humus musicale dei Roaring Twenties. Che si trova, peraltro, testimoniato da tre scampoli illustri: “Imagination” di Livingston (1927) interpretata da Red Nichols and His Five Pennies, la leggendaria “Jubilee Stomp” di Duke Ellington (1928) e “Pennies from Heaven” di Burke e Johnston interpretata dalla vocalist di colore Rose Murphy, celebre per l’intercalare “chee chee” che inseriva in ogni canzone. A ciò si aggiunga la “Danzas del Ballet: II. Danza del Irigo” dall’Estancia op.8 di Alberto Ginastera (1918-1983) compositore italo-argentino considerato un esponente emblematico di quell’area musicale novecentesca in difficile ma fertile equilibrio fra rielaborazione di materiali folkloristici autoctoni e pulsioni prettamente accademiche e classiche.

Un lavoro come si vede dalla straordinaria ed entusiasmante complessità, per i contributi che vi afferiscono, ma che soprattutto individua in Ludovic Bource uno dei talenti più eclettici e aperti di cui la musica cinematografica europea possa oggi avvalersi.


Titolo: The Artist (Id.)

Compositore: Ludovic Bource

Etichetta: Sony Music, 2011

Numero dei brani: 24 (20 di commento + 4 canzoni)

Durata: 77′ 58”


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Attualmente ci sono 4 commenti a questo articolo:

  1. Guido ha detto:

    Allora, caro Alberto, che ne pensi del film?
    (Scrivo qui perché mi sembra il luogo più appropriato, in attesa di una recensione.)

  2. Alberto Cassani ha detto:

    Purtroppo ho avuto una settimana più intensa del previsto e non sono ancora riuscito a vederlo. Spero di colmare il vuoto tra la settimana che viene e quella dopo.

  3. Riccardo ha detto:

    Mi piacerebbe che vincesse l’Oscar o Malick oppure Scorsese ma penso che lo daranno a questo film.

    Credo che però l’Oscar per l’attrice se lo mangerà Millennium 🙂

  4. Alberto Cassani ha detto:

    L’Oscar se lo giocheranno questi tre film, difficile dire adesso se prevarrà uno o l’altro. Quello per l’attrice penso sia praticamente già in casa di Meryl Streep.

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