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Soundtrack: "The Next Three Days" di Danny Elfman

9 maggio 2011 Soundtrack 0 Commenti
The Next Three Days

Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore* * * *

Partitura anomala per Danny Elfman, che riscopre un camerismo sommesso, tonalità tranquille e colori mesti, mettendo il pianoforte in prima fila per farlo dialogare con gli archi come farebbe Clint Eastwood. Una partitura che trasuda tensione, concentrazione emotiva e pathos…


Ecco “l’altro” Elfman, quello di cui il compositore stesso ci parlava, con legittimo orgoglio, nel corso dell’incontro che abbiamo avuto con lui giurato all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Un Elfman lontano dai fuochi d’artificio orchestrali e dalle sonorità fragorose che accompagnano i suoi tanti supereroi: un musicista che – come gli accade non di rado e qui ora per il nuovo film di Paul Haggis con Russell Crowe – riscopre un camerismo sommesso, tonalità tranquille e colori mesti, un pianoforte in prima linea che dialoga con gli archi quasi à la manière di certe partiture eastwoodiane (ma Haggis non è forse anche lo sceneggiatore di molto Clint…?). Si è tentati dall’aggettivo “minimalista” che però Elfman stesso respinge, se per minimalismo s’intende un’architettura di suoni raggelata, anaffettiva e monocellulare. Al contrario, lo score di The Next Three Days trasuda tensione pulsante, pathos, concentrazione emotiva; e l’orchestrazione del fido Steve Bartek, cui si affiancano qui Edgardo Simone e David Slonaker, interagisce molto discretamente, quasi inavvertitamente, con il suono elettronico di Marc Mann, creando un amalgama non solo funzionale al climax sospeso del film ma di grande valore espressivo e affascinante all’ascolto.

Il severo “Prologue” e l’inquieto “A way in”, una sorta di lungo movimento mosso senza preciso baricentro melodico ma con il piano e le percussioni raddoppiate, nella loro inquietudine dinamica, dagli staccati e dalle evoluzioni degli archi, sono brani rappresentativi dell’intero score. Elfman dichiara apertamente in una nota del booklet i due elementi centrali: la presenza dominante del pianoforte (ottimo e coinvolgente il tocco sommesso del solista T.J. Lindgren) e il rifiuto di “alzare la voce” con l’orchestra, confinata come si diceva esclusivamente a una massa instabile di archi (governati con grande misura dal direttore Rick Wentworth). Quanto all’elettronica (“Blood stain”, per non fare che un esempio), essa rappresenta solo lo “strumento in più” da connettere con gli altri nei frangenti di maggior tensione, ma la scelta è ancora una volta – e molto netta – quella di tenere come suol dirsi i toni “bassi”. E poiché in Elfman sonnecchia una vena lirico-intimista che spesso il compositore muscolare e tonitruante di tanti kolossal ha dovuto lasciare in disparte, eccola emergere nello struggente dialogo violoncello-pianoforte di “Same old trick” o nello sconsolato fraseggio del quartetto d’archi, intersecato dagli accordi discendenti del piano, di “All is lost”. E’ all’accelerazione del ritmo (“A promise”, con sagace uso delle percussioni elettroniche) e mai al rigonfiamento del suono che Elfman affida anche i momenti di maggior drammaticità, mentre a tratti negli archi può emergere un improvviso, struggente cantabile (“That’s ok”), e i due componenti possono anche confliggere con un repentino sbalzo di temperatura drammatica (“It’s on”), senza tuttavia mai mischiarsi in generico sottofondo. La voce evocativa ed etnica di Ayana Haviv si alza, spettrale, in “The evidence”, mentre i primi violini traggono uno dei rari momenti di propria evidenza in “A warning”.

Il gioco di staccati ed echi percussivi nel lunghissimo e articolato “Breakout” è un altro lampante esempio delle procedure elfmaniane in questo score, così come il susseguirsi (unica cellula leitmotivica della partitura) degli accordi del piano sul tappeto di archi in “Touch”. Misteriose e lunari le sonorità elettroniche iniziali di “Reunion”, subito però arricchite dall’impasto emozionante e malinconico degli archi (Elfman è, intimamente, un compositore incline alla mestizia che spesso si travisa dietro la maschera di un pirotecnico clown dei colori strumentali). “They’re off” si caratterizza per il canto penetrante del cello solo sulla ritmica di archi e percussione e per la sottolineatura di quell’atmosfera di sospensione psicologica che è un po’ la cifra dominante dell’intero lavoro. Il lungo, ricapitolatorio “The truth” pone a stretto confronto i tre ricorrenti e immutabili accordi del piano con le progressioni a salire in ostinato degli archi sino a sfociare in una sorta di “ballad” polistilistica dove è ancora la voce straordinaria di Haviv a dare il clima giusto. E dopo il breve ma appassionato “The aftermath” ecco i due hit di Moby, “Mistake” e “Be the one”, perfettamente integrati – specie il primo – proprio nella loro poliedricità ritmico-strumentale con lo score originale. Score con il quale Danny Elfman afferma di aver voluto innanzitutto (e così sarà ancora di più per il prossimo film di Gus Van Sant, Restless), “autodisciplinarsi”, ma grazie al quale possiamo apprezzare ancora di più uno degli aspetti maggiormente interessanti e stimolanti della sua ricchissima personalità creativa.


La copertina del CD di The Next Three DaysTitolo: The Next Three Days (Id.)

Compositore: Danny Elfman

Etichetta: Silva Screen, 2011

Numero dei brani: 25 (23 di commento + 2 canzoni)

Durata: 71′ 38”


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