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Soundtrack: Una storia senza nome di Marco Betta

3 giugno 2019 Soundtrack 0 Commenti
Una storia senza nome

Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore* * * * *

Compositore dal variegato percorso artistico, il siciliano Marco Betta ha composto per “Una storia senza nome” una partitura ironica e autoironica, sofisticata. Una musica molto presente all’interno del film e architettata sull’uso consapevole di alcuni stereotipi sapientemente miscelati…


Marco Betta è un compositore “prestato” al cinema, che rappresenta infatti uno dei molteplici aspetti del suo percorso artistico come autore operistico, sinfonico, cameristico, per la danza e per il teatro di prosa. Ma il musicista siciliano è anche una figura “totale”, attiva sotto gli aspetti organizzativi (è stato a lungo direttore artistico del Teatro Massimo di Palermo, tenendo a battesimo la sua riapertura nel 1997 dopo quasi un quarto di secolo), gestionali e manageriali, non meno che sul fronte creativo; e non sorprende allora il criterio fortemente selettivo dei suoi contributi al cinema, che privilegia autori e film di spessore narrativo e civile non comune, spesso legati a biografie importanti come Maria Montessori – Una vita per i bambini e Aldo Moro – Il Presidente, entrambi televisivi ed entrambi di Gianluca Tavarelli.
Ma il regista con cui Betta ha più feeling è senz’altro un altro palermitano “doc” come Roberto Andò, con il quale il musicista collabora (anche in campo teatrale) sin dal Manoscritto del Principe, seguito da Viaggio segreto e Viva la libertà. Andò è infatti un autore che ama utilizzare le categorie del paradosso e della satira, alternando thriller e/o commedia per raccontare storie che ci riguardano tutti e che afferiscono a un presente ben poco consolatorio. In questo senso Una storia senza nome, ispirato al furto della “Natività” di Caravaggio avvenuto nel 1969 per mano della mafia, è un’opera paradigmatica: vi affluiscono elementi del più puro noir ma venati di grottesco e di commedia sofisticata, coniugando elementi di attualità (l’eterno ritorno dei mai risolti misteri italici…) e ritmi da thriller politico, in una fusione giallorosa che rappresenta un excursus assai poco praticato nel nostro cinema.

Una simile commistione è un invito a nozze per il raffinato eclettismo di Betta, che si è indubbiamente e apertamente divertito a confezionare una partitura (auto)ironica e sofisticata, molto presente nel film e architettata sull’utilizzo consapevole e allusivo di alcuni stereotipi miscelati con mano sapiente e disincantata. Vi si respira un’atmosfera sospettosa e ambivalente, a cominciare da quel tema principale, tanto orecchiabile quanto mellifluo, esposto in forma di morbido e compunto “Valzer” d’apertura. Si tratta di un’idea leitmotivica portante, associata a un controtema su un’intensa frase discendente di raccordo, che sarà magistralmente sottoposta dal compositore a una serie di variazioni dove a farla da padrone è una finezza di scrittura strumentale di rara filigrana, esplicata in passi musicali felpati e in episodi a volte brevissimi quanto penetranti. La marimba e gli staccati degli archi di “Il biglietto da visita”, il vibrafono e il clarinetto di “L’appuntamento”, l’atteggiamento attendista e sospeso degli archi, il ruolo protagonistico dei legni e dei timpani di “Delitto nel parcheggio”, apparentemente giostrati su armonie minimaliste, svelano in realtà una varietà e una instabilità di trattamento e di soluzioni che si rivelano indispensabili nel costruire il clima da “mistero buffo” che aleggia sulla vicenda.

La ripresa del valzer, dagli archi e in pianissimo, in “La consegna”, il brulicare nervoso di legni e archi in “La piscina vuota”, la ripresa inquieta del Leitmotiv da parte del piano in “Immacolatella tra i pentiti”, sono tutti – insieme ad altri – elementi di una drammaturgia musicale che da un lato denunciano la vocazione spiccatamente teatrale del compositore (tutti i brani possiedono una fortissima componente “visuale”) ma insieme a questa svelano un cosmopolitismo linguistico capace di rovesciare scientemente alcuni stereotipi (il sommesso “Swing palermitano” è tutto fuorché uno swing, e la variazione del tema conduttore sul moto perpetuo tremolante dei violini in “Valeria spia” è un momento magistrale) mantenendosi sempre in bilico tra autentica suspense (il pedale dissonante di violini in “Comunicazione sul Tevere” o l’alternanza tra il cantabile dei celli e l’allarmante tremolo dei violini in “Omnibus”) e consapevole umorismo sonoro ottenuto con encomiabile sobrietà di mezzi (i leggeri tocchi di legni e vibrafono de “La seduzione”).
In realtà, il piacere provocato da una scrittura rigorosamente orchestrale così fantasiosa, “classica” e psicologicamente mirata, non è fine a se stesso, ma costituisce l’ossatura portante del racconto musicale che Betta ci offre (persino con qualche momento morriconiano, come in “La fuga”): ossia un controcanto tutto interno alle leggi del discorso musicale, esplorato in ogni sua potenzialità e forma, e in una ripartizione e compenetrazione reciproca di timbri e famiglie strumentali di levatura superiore. Perdipiù, aleggia sul tutto una sorridente e talvolta sarcastica malinconia di sottofondo (“L’intercettazione”) che interagisce con il tema principale all’insegna di un’impalpabile, impressionistica lievità di scrittura (“Il furto del Caravaggio”, “L’originale e la copia”) nella quale si inseriscono elementi iniziali come il rullo dei timpani o l’andatura valzeristica (“Conversazione in terrazza”).

Interessante e redditizia è anche la scelta di non alzare mai l’asticella dei toni, anzi di procedere coerentemente lungo un crinale espressivo sottile, allusivo, sino a punte di rarefazione estrema, come i tre semplici, spettrali accordi pianistici in cui si esaurisce “La scelta di Riccardo”, oppure approdando a una minacciosa, incombente forma di sinfo-minimalismo, come nel ritmo scandito di “Palazzo Chigi”, o ancora nel lento, faticosamente denso e tonalmente ambiguo lavorìo degli archi di “Valeria spia Agate”, tipica “musica del mistero” che non può non ricordarci l’Herrmann di Psyco.

Nella loro sinteticità, e riutilizzando in modo ossessivo alcuni stilemi (le sestine del vibrafono, il disegno del clarinetto basso, le movenze ammiccanti e “dark” degli archi), i brani costruiscono pezzo dopo pezzo, pazientemente e ostinatamente, le coordinate di un universo chiuso, claustrofobico, popolato di ombre indefinibili. Nel quale si aprono ogni tanto inattesi spiragli di luce come la stupenda, mediterranea melopea in fa minore dell’oboe sul tremolo degli archi in “Il film di Kunze”, che prosegue poi con l’intensità e i risvolti di un vero e proprio intermezzo operistico verista (guardando a Giordano e Cilea, forse, più che a Puccini); si giunge così al primo “Epilogo”, dove l’assetto valzeristico perde ogni connotazione di eleganza per trasformarsi, attraverso derive politonali e continui, fitti dialoghi strumentali (fagotto, vibrafono, arpa, archi), in una pagina apertamente visionaria e surreale. Caratteristiche riprese nell'”Epilogo pt.2″, che sembra voler richiamare più chiaramente quella cornice grottesco-minimalista in realtà presente sottotraccia in tutta la partitura.
Tocca al tema principale, affidato al pianoforte ma su un irrequieto movimento degli archi e il rintocco un po’ funebre dei timpani, congedarsi nel brano finale omonimo del film: lasciando assolutamente insoluti, e sospesi, tutti gli enigmi e i sospetti accumulati nella vicenda – tra realtà di cronaca e sua rielaborazione narrativa – raccontata da Andò, e di cui l’intrigante partitura di Marco Betta costituisce un’amplificazione tanto seducente quanto a sua volta inafferrabile.


La copertina del CDTitolo: Una storia senza nome

Compositore: Marco Betta

Etichetta: Emergency Music, 2018

Numero dei brani: 35

Durata: 64′


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