Soundtrack: "Pain & Gain" di Steve Jablonsky
Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore – * * *
Quella di Pain & Gain è una partitura che si propone come una specie di flusso di sensazioni non programmaticamente o rigidamente connesse al film, ma piuttosto affidate alla percezione individuale dell’ascoltatore. L’impressione è a tratti suggestiva, altrove ripetitiva e altrove ancora disorientante…
Tra i numerosi compositori che afferiscono all’area zimmeriana, Steve Jablonsky è forse quello che occupa una posizione più defilata. La tetralogia dei Transformers ne solletica la vena colossale, bellicosa e metallicamente squadrata, ivi compreso quel marchio solenne e maestoso, nonché ridondante, tipico del “maestro”. Ma altre fatiche, come i remake degli horror Venerdì 13 e Nightmare, i recenti Ender’s Game e Lone Survivor e soprattutto Gangster Squad, ci rivelano invece un musicista attento alla sperimentazione, alla ricerca di strade nuove e di un linguaggio più personale.
In questa tragicomica crime-story sportiva che ha per protagonisti Mark Wahlberg e Dwayne “The Rock” Johnson, provvisti di anabolizzanti quanto sguarniti di comprendonio e di fortuna, il 43enne compositore ritrova il suo regista prediletto, Michael Bay, e decide per l’occasione di abbandonare completamente la scrittura orchestrale a favore di un sound elettronico molto anni 80, con incursioni nel rock progressivo e in paesaggi underground piuttosto radicali e abbastanza spiazzanti all’ascolto. Lo score che ne risulta appare gioiosamente abbandonato alle magie del sequencer e dei synthesizer, consapevolmente “alieno” e alla fin fine curiosamente laboratoriale nel momento in cui avvolge quella che è sostanzialmente una commedia “nera” in un’atmosfera fantascientifica e lunatica che ricorda abbastanza da vicino le fatiche di Cliff Martinez, il compositore sodale di Steven Soderbergh.
Il tipo di sonorità pulsante, ronzante e ossessiva raggiunge la massima efficacia proprio quando viene radicalizzata, come in “Run him over”, che soprattutto nei registri gravi svela paternità zimmeriane ma che in quello acuto, inchiodato sul “re”, trova il baricentro di una perfetta circolarità armonica costruita su masse sonore densissime ed effetti vocali. “I’m Big”, che inizia tra fruscii sospensivi, si accende di una chitarra elettrica che espone un luminoso tema quasi pinkfloydiano, per lasciare spazio a palpiti decisamente più rockettari in “Sun gym” e a nostalgie psichedeliche alla Vanilla Fudge in “Definitely guys”. È singolare che Jablonsky riesca a creare un’atmosfera vintage attraverso simili opzioni tecnologiche, ma tant’è: la ricercatezza di alcuni effetti di missaggio (curato da Jeff Biggers negli studi californiani di Santa Monica), con tanto di ronzii da corto circuito e pieno sfruttamento della stereofonia (il volutamente, provocatoriamente monotono “I got saved”) sembra davvero retrodatare il lavoro a una trentina d’anni fa nel perseguimento di un “mood” allucinato e ipnotizzante. Uno stile all’interno del quale però si fanno strada momenti più drammaturgicamente “costruiti”, come “I’m gonna tell Jesus”, che vibra e vive di rulli di percussione ansiogeni e di una progressione incalzante nel disegno tematico. Il rapporto della partitura con l’elemento ritmico è comunque stringente, quasi vincolante, sino a rischiare di estromettere qualunque altra componente: si ascolti “Buckie up”, che frizza e frigge di un’elettronica quasi materica, da “musique concrète”, o “I work hard” e “Get a pump”, molto prossimi a una tipologia di musica “rumoristica” così come il brusiante e informe “Cologne”.
Allo score di Jablonsky non sono estranei riferimenti tematici precisi, e così ecco che il lento riff di chitarra di “I’m Big” viene ripreso in modalità grandiosa e distesa in “I believe in fitness”, dal sapore ottimistico e inneggiante; in “Du Bois” affiora addirittura una sezione d’archi – rarissima concessione acustica della partitura – a esporre un pacato e nobile tema lirico sull’ostinato sovraesposto dal synt. Siamo dinanzi al lato più “zimmeriano” del lavoro, quello cioè in cui i due elementi, acustico ed elettronico, si avvicinano a una possibile convivenza. E tuttavia non è questa l’opzione prevalente di Jablonsky nella presente circostanza: lo dimostrano “CIA”, quasi un cut da videogame (settore in cui questo compositore è molto richiesto) per synth e pianoforte preparato, secondo uno schema che ricorda i lavori del giovane John Carpenter, o “My shit stopped workin'”, che parte in sordina e approda a uno sviluppo di monumentale imponenza sonora. Tonalità apocalittiche e ritmica convulsiva animano anche “Toe”, brano oltremodo estremo e violento nell’approccio hi-tech; mentre il lungo, conclusivo “Doyle” esordisce con il synth a ripetere sommessamente e incessantemente la terzina “re-fa diesis-la” su cui viene modulata e poco a poco edificata una specie di lenta, scultorea marcia rituale che viene poi compressa e infine spenta in un pensoso re maggiore.
Dunque una partitura che si configura e si propone come una specie di flusso di sensazioni non programmaticamente o rigidamente connesse al film, ma piuttosto affidate alla percezione individuale dell’ascoltatore. L’impressione è a tratti suggestiva, altrove ripetitiva e altrove ancora disorientante. Resta la convinzione che da Jablonsky ci si possa aspettare di più, magari in discontinuità con l’ambiente da cui proviene e i compositori che ne fanno parte.
Titolo: Pain & Gain – Muscoli e denaro (Pain & Gain)
Compositore: Steve Jablonsky
Etichetta: Varèse Sarabande, 2013
Numero dei brani: 26
Durata: 66′
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