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Soundtrack: "The Raven" di Lucas Vidal/"Intruders" di Roque Baños

8 ottobre 2012 Soundtrack 0 Commenti
Roberto Pugliese, 27 Settembre 2012: * * * ½ / * * * *
In collaborazione con Colonne Sonore

Negli ultimi anni si è andata affermandosi una “scuola nazionale spagnola” di musica cinematografica, formata da compositori di età diversa ma principalmente specializzati in film di genere. Lucas Vidal e Roque Baños sono due dei suoi massimi esponenti…


Si può legittimamente parlare di una nuova “scuola nazionale spagnola” di musica cinematografica, formata da compositori di età variabile dai 50-55 ai nemmeno trent’anni, e prevalentemente specializzatasi nel cinema di genere horror, thriller o fantasy? È sufficiente un’occhiata alle filmografie per fornire una risposta più che affermativa: i nomi di Javier Navarrete, Roque Baños, Carles Cases, Lucas Vidal e in parte Alberto Iglesias (figura più eclettica) costituiscono ormai da tempo una pattuglia di compositori straordinariamente agguerriti e pervicacemente affezionati a una concezione “classica”, un po’ vintage ma potente e sinfonica, della musica per film, alcuni dei quali hanno anche legato il proprio nome in maniera abbastanza stabile con registi fortemente esposti sul fronte dei succitati “generi forti”” come ad esempio Alex de la Iglesia o Jaume Balaguerò. Le partiture di questi musicisti, che possiedono stili molto diversi e formazioni altrettanto differenziate, si caratterizzano sostanzialmente per un presenzialismo accentuato, quasi “fisico” nel corpus del film, e per la vulcanica capacità degli autori di inventare continuamente temi, soluzioni, immagini sonore a volte di stupefacente originalità e penetrazione, dimostrando così doti e qualità spesso ormai sconosciute anche ai loro più agguerriti colleghi d’oltreoceano.
La messa a confronto degli score per due recenti prodotti del filone (il primo una rivisitazione in costume della figura di Edgar Allan Poe attraverso spunti dai suoi racconti, il secondo una moderna storia di possessioni notturne, ossessioni infantili e visitatori senza volto) consente una valutazione abbastanza esauriente delle tendenze di questa “scuola”, proprio per le procedure adottate in entrambe le circostanze dai compositori chiamati in causa.

Il 28enne madrileno Lucas Vidal è stato un talento precocissimo, formatosi al Berklee College di Boston e poi perfezionatosi a New York e Los Angeles; benché così giovane sembra voler trattenere in sé qualità e metodologie “vecchia maniera”, prima fra tutte la direzione d’orchestra che egli (pur assistito da numerosi orchestratori, su cui primeggia Bruce Fowler) tiene ad assumere sempre in prima persona. Attivo dalla metà dei 2000 con diversi corti e film-Tv, si è rivelato con le densissime partiture per i thriller Vanishing on 7th Street di Brad Anderson e La fredda luce del giorno di Mabrouk El Mechri (quest’ultimo con Bruce Willis), sfondando poi nell’ultimo biennio, oltre che con il film poeiano di James McTeigue, anche con l’inquietantissimo e intossicante soundtrack per Bed Time di Balaguerò. Designato nel 2011 “compositore rivelazione dell’anno” dall’Associazione internazionale critici di musica per film, Vidal ha attualmente in cantiere qualcosa come sei film tra pre, post-produzione e riprese in corso. Come dire che è sicuramente il giovane talento europeo su cui non solo il cinema iberico ma anche quella Hollywood in cui si è trapiantato in questo momento puntano forse maggiormente.
Il motivo lo si capisce sin dall’ascolto dei primi track di The Raven: Vidal ha assorbito rapidamente tutte le astuzie e le alchimie “mainstream” dei colleghi adusi a questo genere di film e in particolare all’utilizzo parallelo e invasivo di elettronica più orchestra rinforzata, con una particolare attenzione a che nessuna delle due componenti prevarichi l’altra. Del resto l’intento comune e dichiarato di regista e compositore è stato in questo caso ottenere un effetto di contrasto tra tipologia musicale e ambientazione. In altre parole, serviva una partitura che non possedesse alcunché di ottocentesco e di vittoriano ma che nondimeno “stesse sul pezzo”” con una modernità nello stesso tempo aggressiva e dal sound contemporaneo, ma tradizionale e quasi artigianale nella concezione, un po’ come avevano fatto in passato Trevor Jones per La vera storia di Jack lo Squartatore o quasi mezzo secolo prima – e disponendo di mezzi assai più ridotti – quel geniale sperimentatore di Les Baxter per gli horror poeiani indipendenti di Roger Corman.
Il risultato è un soundtrack d’atmosfera assai più che di idee, ove risulta ardua la distinzione fra i vari brani, unificati da opzioni ritmiche martellanti e binarie, da figurazioni ostinate degli archi e da insostenibili crescendi di ottoni e percussioni: la summa di questi tre “stereotipi”, consapevolmente assunti e resi incandescenti da un’orchestrazione al calor bianco, costituisce la cifra stilistica di molte pagine della partitura, serenamente avviate alla ripetitività in una scenografia sonora che non riserva molte sorprese. Contano però i dettagli, perché Vidal lavora in realtà di cesello sugli assemblaggi sonori e sui mix con il Digital Performer: “Fields arrives” e soprattutto “The Pit and the Pendulum”, con la sua progressione terrificante, lo dimostrano, non meno di “Rush to the theatre”, incalzante e inesorabile nella scansione ritmica. Ma Vidal, come gli altri suoi colleghi, non è un generico artificiere di suoni terroristici al pari di molti (troppi) esperti del ramo esplosioni made in Usa, capaci ormai solo di bombardare le orecchie dello spettatore-ascoltatore con “soluzioni” di puro e sterile effetto; la vena mediterranea e meditativa che scorre in lui si affaccia nelle numerose pagine di pacata tensione, affidate ad archi divisi e tenerissimi interventi dei legni (“Poe and Emily”, “Ladies’ luncheon”), dove trovano spazio struggenti assoli del cello e imprevedibili, malinconiche luminescenze melodiche costruite su pensosi fraseggi degli archi (“Poe talks of his wife”). Si nota sicuramente l’assenza di preoccupazioni leitmotiviche nel comporre di Vidal, che promuove piuttosto a tratto distintivo di riconoscibilità una cellula motoria o una coppia di accordi o la distorsione di una frase dei violini (espediente frequente) o ancora l’accostamento di un pedale o di un tremolo di archi con un riverbero percussivo. Elementi cioè strutturali, costitutivi, più che inseriti dall’esterno; anche il lungo “Where’s Emily?” ne è una prova, con la sua furibonda alternanza fra soffocanti restringimenti ritmici di archi e percussioni e improvvise, desolate aperture dei celli quasi a cercare invano un punto di approdo, un’oasi di pace, come nell’intenso, lirico “Finding Emily” o nella limpida, trasparente preparazione di “In the Hospital”, prima di una nuova corrusca e drammatica conclusione, cui segue – con forte effetto di contrasto – il bonus track popolare irlandese “Rakish Paddy”.

Non sono tanto l’anagrafe e la conseguente maggior esperienza a marcare la distanza tra Vidal e il 44enne Roque Baños, che nell’horror di Juan Carlos Fresnadillo è più o meno alle prese con i medesimi materiali e le medesime contingenze narrative. Piuttosto in Intruders emergono tecniche e procedure squisitamente strumentali (il compositore orchestra di fatto da sé e dirige anch’egli personalmente la magnifica Pro Arte Orchestra of London; tra l’altro la registrazione è avvenuta negli stessi leggendari Abbey Road Studios londinesi dove ha inciso Vidal), un debito dichiarato con la lezione di intransigenza e di audacia creativa lasciata da Bernard Herrmann (si veda la bella intervista nel booklet rilasciata dal compositore a Daniel Schweiger), e una varietà di soluzioni, paesaggi e colori che spiazza a ogni istante di ascolto.
Baños, che ha ormai al suo attivo score memorabili e sodalizi consolidati (Ballata dell’odio e dell’amore per de la Iglesia rimane tra le partiture-top del decennio), è un maestro decisamente più legato alla grande tradizione del “commento musicale” inteso come rivestimento parallelo e contestuale alle immagini, ma costruito secondo una fisionomia e con uno spessore dinamico destinati a travolgere l’attenzione d’ascolto dello spettatore. In più la tensione del compositore di Murcia per l’aspetto squisitamente concertistico del proprio lavoro è costante, e declina altre, cospicue influenze: a cominciare in questo caso da quella, sottolineata sempre nel booklet da una testimonianza del regista Fresnadillo, subita dal “Sacre du printemps” di Stravinsky.
Con questi presupposti, lo score di Intruders si impone sin dalle prime battute come una straordinaria esperienza uditiva. È ben vero che vi ritornano, anche qui, stereotipi pressoché obbligati di genere, specialmente dal punto di vista della tecnica orchestrale, ma innanzitutto essi sono sovente utilizzati a contrasto: ad esempio nell’iniziale “Shadow Monster”, dove all’introduzione allucinata e misteriosa degli archi in flautando e tremolanti sul ponticello (stratagemma che ricorrerà spesso) segue un incantevole, chopiniano interludio pianistico dove la fluentissima vena melodica dell’autore si fa già strada. “Juan’s nightmare” è pagina in certo senso emblematica dell’intera partitura: lo scontro di colori strumentali e di timbri diventa tellurico, il lavoro iniziale sugli archi in glissando o bloccati sull’armonico, i grovigli in crescendo degli ottoni riportano con la memoria alle prime composizioni d’avanguardia di Penderecki (così amate dal Kubrick orrorifico di Shining), e l’esplosione della seconda parte del brano impone a legni e di nuovo ottoni virtuosismi in forzatura che alzano la temperatura a livelli di fusione e ricordano alcune tra le più violente soluzioni del miglior Elliot Goldenthal.
A differenza di Vidal, più cosmopolita e giovanilisticamente aperto, Baños sembra però voler qui preservare – pur nell’apocalisse sonora che egli sa scatenare – un gusto per la “forma” e si direbbe per il “mèlos” di natura eminentemente melodrammatica. Lo rivelano la nascita e lo sviluppo del Leitmotiv principale, mesto e lugubre insieme, che “Intruders Titles” affida ad una ricorrente, spettrale voce bianca in una sorta di nenia tra il trasognato e l’agghiacciante, ma che gli ottoni subito riprenderanno, ben più minacciosamente e su un ritmo di marcia scandito da celli e bassi, in “Waking up Hollowface”; d’altronde la vena melodica del musicista e la sua capacità di dirimere incroci tematici anche complessi è risaputa, anche perché Baños lo fa agendo con procedure variative semplici ma efficaci e scioccanti. Accanto a questa vena naturalmente, film come quello di Fresnadillo sollecitano in un compositore attento e sensibile alla modernità come lui tensioni e curiosità sperimentali irresistibili, liberando energie praticamente incontenibili soprattutto sul fronte del trattamento orchestrale: “John’s family” e soprattutto “The worker’s accident” ad esempio continuano ad alternare l’esposizione sempre più dolorosa e perorante del Leitmotiv con una tavolozza di virtuosismi degli archi dalla scrittura semplicemente infernale, giocati su continui crescendi, tremoli spezzati e flautandi raggelanti, mentre i violini ripropongono il tema principale in “Entering the story” sul fondo di uno scampanellare di piano e vibrafono in una cornice quasi surreale. Qui poi l’incontro tra la voce bianca di Ralph Skan e il surriscaldarsi dell’orchestra produce un ulteriore, terrificante effetto di contesa timbrica.
Va naturalmente sgombrato il campo da un dubbio: è ovvio che costretto dalla tipologia del film a tenere costantemente i toni così alti e allarmati anche Baños rischia a tratti la ripetitività, specialmente perché egli rifiuta il ricorso al suono computerizzato e quindi spalma in ogni settore dell’orchestra il massimo di inventiva possibile, chiedendo ai musicisti londinesi a volte prestazioni davvero borderline. Ciononostante, anche in pagine di evidente circostanza spinte quasi al “mickeymousing” come “Hollowface in Mia’s room” (sempre tremoli di archi sul ponticello alternati a sforzandi degli ottoni, terremoti della percussione, urla selvagge dei corni e disegni demenziali, forsennati degli strumentini), sono sempre l’imprevedibilità degli accostamenti e la spregiudicata, furibonda violenza con cui si sprigiona il magma sonoro a risultare gli elementi vincenti, specie se costantemente mescolati ad altrettanto sorprendenti e radicali zone di quiete ritmica ancora più minacciosa (sempre nel prefinale di questo brano, gli accordi sommessi e cupissimi di bassi e fiati e poi la toccante frase dei celli).
Partitura senza un attimo di tregua, si diceva: e con una inesauribile capacità di metamorfosi interna, pur richiamando continuamente i propri elementi costitutivi. “Back to the house” e “Second attack” ad esempio richiamano in campo, con funzione palesemente evocativa, rispettivamente la voce bianca e il tema conduttore, ma la parte centrale di quest’ultimo, con le furiose sincopi tra piano, ottoni e percussioni, si rivela una citazione quasi letterale della parte conclusiva del “Sacre” stravinskyano: cui, manco a dirlo, segue un dolente adagio per celli e viole sigillato dal nuovo intervento della voce. Se “The exorcism” è davvero un sapiente repertorio pendereckiano di acrobazie strumentali nella cui parte centrale però Baños fa alzare con struggente efficacia emotiva il tema conduttore, giocandolo fra tremoli e frasi degli archi e solenni, incombenti interventi degli ottoni (ecco l’alternanza fra esplosioni di apparente caos e sublimi oasi melodiche in cui il maestro è specialista), il contrappunto ancora degli archi e lo sviluppo in un andante di inconsolabile pensosità e intensità melodica che caratterizzano “Leaving home” svelano tutta intera l’altra faccia dello score e, insieme a questa, l’afflato classico e le doti di scrittura del musicista: semplicemente meraviglioso l’epilogo del track, sul tremolo dei violini in si prima e il pedale dei celli poi, con le divagazioni del pianoforte seguite da un assolo lirico del violoncello.
Ovvio e ricercato, ma a questo punto consapevolmente gestito, il nuovo conflitto di atmosfere con i successivi “Mia’s notes” (che però contiene un episodio intermedio da brividi, con il Leitmotiv teso nel tremolo dei violini) e “In the farm”: le procedure strumentali di avanguardia nel trattamento degli archi qui si fanno radicali, ultimative, e nel secondo dei due brani il ritorno della voce bianca, chiamata a sovrastare la rovente minacciosità dell’orchestra, sortisce un effetto particolarmente agghiacciante. Quel lato mélo che lavora costantemente sottotraccia nell’horror made in Spain, e che trova nelle partiture di Baños una perfetta, pulsante e irresistibile corrispondenza, si scioglie poi nell’agitazione motoria angosciosa e soffocante degli archi in “Discovering the truth”, che tuttavia riserva a questa stessa famiglia di strumenti un ruolo nuovamente meditabondo, sfociante in un adagio romantico di rara bellezza.
Gli oltre undici minuti di “It’s over” (a precedere i severi, composti “End titles” per archi, voce e pianoforte, conclusi su un soave fa minore di violini ma sigillati da un estremo, ringhiante brontolio dei bassi…) sono di fatto una suite a sé stante e un piccolo trattato per orchestra: Baños vi dispiega tutta la propria stregonesca abilità di suscitatore di incubi sonori agendo innanzitutto sulle dinamiche di suono (ottoni sforzati allo spasimo e con una potenza di fuoco sonora raramente udita in passato) e sulle interazioni tra fiati e archi, questi ultimi non di rado trattati con tecnica quasi percussiva. Ulteriori elementi, il contrasto quasi bellico fra pianissimi e fortissimi soprattutto nella prima parte del brano, e la ripetizione quasi supplicante del Leitmotiv da parte dei violini in tremolo e in dialogo con la minacciosità degli ottoni. Incredibile appare come l’enucleazione in pratica di un’unica idea tematica sia dal compositore sfruttata con un’organizzazione della struttura musicale e un’economia psicologica dell’orchestrazione tali da renderlo un tema polivalente e polisemico: tutta la seconda parte della pagina, incendiata da soluzioni strumentali di puro e governatissimo terrorismo, si basa su variazioni intorno a questo tema, riprendendo tuttavia anche l’adagio di “Discovering the truth” e optando per una lunga conclusione accorata degli archi, con intervento del flauto, emotivamente irresistibile e di travolgente, disperata cantabilità.

In sintesi, il raffronto tra queste due partiture ci sembra utile non solo a testare il fiorentissimo stato di salute della scuola spagnola di musica per film, ma anche a testimoniarne la rapidissima trasformazione; va da sé che c’è molta distanza fra la complessità strutturale e la ricchezza di invenzioni di Baños da un lato e l’abilità tecnica, la spregiudicatezza ma anche le soluzioni un po’ generiche e facili di Vidal dall’altro. Rimane però intatta l’impressione di un enorme laboratorio di idee musicali, per di più sviluppate a contatto con generi molto rischiosi e spesso per autori di rinomata trasgressività, come de la Iglesia. In questo senso, il soundtrack made in España ci appare oggi come la novità più interessante e inattesa sul fronte del comporre cinematografico in Europa, e forse non solo qui.


Titolo: The Raven (Id.)

Compositore: Lucas Vidal

Etichetta: Sony, 2012

Numero dei brani: 22

Durata: 47′


Titolo: Intruders (Id.)

Compositore: Roque Baños

Etichetta: Milan, 2012

Numero dei brani: 18

Durata: 75′ 26”


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