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"Into the Wild" di Sean Penn

24 ottobre 2007 Recensioni 22 Commenti
CineFile

Bim, 25 Gennaio 2008 – Immenso

Christopher, ragazzino benestante e da poco laureato, parte, abbandona tutto e tutti, con l’obiettivo di scoprire la natura e raggiungere l’Alaska. Incontri, esperienze, riflessioni, ne segneranno per sempre la vita…


Emil HirschIn anni in cui attori, registi ed eminenze di vari colori di Hollywood fanno a gara per aggiudicarsi il palco mediatico dal quale attaccare Bush e la sua politica, c’è qualcuno (pochi in verità) che si ritrae schivo, che mette in atto le sue idee e le traduce in pensieri e opere. Tra questi c’è sicuramente Sean Penn, che negli anni in cui tutti parlavano solo da casa (come fa notare Robert Redford nel suo Lions for Lambs), è andato in Iraq a sdraiarsi nei territori quotidianamente devastati dalle bombe. Forte del suo carisma, Penn ha presentato alla Festa del cinema di Roma questo suo nuovo film, che lontano dalle sterili polemiche della quotidianità, ma dentro quello spirito nazionale che la guerra uccide ogni giorno, racconta la natura e l’animo di un popolo. Centrando un capolavoro.

Scritto e prodotto dallo stesso Penn, un eccezionale viaggio, un road movie drammatico, intimo e assoluto che racconta la formazione e la nuova nascita di un uomo a contatto con la natura e il mondo non civilizzato, ma anche la crescita spirituale e mistica di un popolo che negando il contatto con la terra ha negato la grandezza delle sue radici.

Emil Hirsch in una scenaDiviso in 5 capitoli e raccontato dalla voce over della sorella, è la storia vera di Christopher McCandless (a cui Jon Krakauer ha dedicato il libro Nelle terre estreme), ragazzo degli anni ’90, saturo della civiltà dei consumi e del benessere, che comincia un percorso attraverso la solitudine e l’isolamento, in cui il rifiuto dei simboli del benessere diventa la ricerca dello sporco e della fatica, del sudore e della scomodità, dell’ossessione acuta per un modo di vita e pensiero che, con un violento colpo di spugna, cancelli la civilizzazione e i suoi danni. A lato, discretamente, si snocciola il ritratto di una famiglia il cui crollo delle certezze è il crollo delle basi di un mondo (Bush padre, a ricordarci del figlio).

Hal Holbrook e Emil HirschPenn, con una sincerità che va da John Ford a Zabriskie Point da Grizzly Man fino a Una storia vera, legge l’anima della nazione, con i suoi luoghi e i suoi topoi come tappe del viaggio, le sue persone come compagni (straordinari i ritratti dei molti vecchi), le sue disperazioni come sfondo del racconto: lo stupore di fronte alla natura e la scoperta mistica di un rapporto diverso con i bisogni, ovviamente, ma anche la consapevolezza di un bisogno di comunicare e condividere, in cui il ciclo della vita non termina con la morte, ma con la rinascita.

Brian Dierker e Katherine KeenerTanto profondo ed emozionante da poter durare anche il doppio dei suoi 148 minuti, lo script rende la complessità di un personaggio la cui naïveté e il cui narcisismo di fondo diventano la base di un’ambiguità narrativa su cui Penn sa approfondire i propri dubbi, sa smuovere l’intimo dello spettatore, sa commuoverlo di continuo senza mai estorcergli le lacrime. Rischia, punta molto in alto, sfida anche il ridicolo nella sua radicalità, ma non dimentica mai la purezza con cui guarda al cosmo, con cui vive il cinema, con cui riflette sul mondo.

Kristen Stewart e Emile HirschUn western contemporaneo, l’unico possibile al di là degli omaggi e dei remake, in cui l’unica frontiera è quella interiore e ancestrale, dove la natura madre e matrigna non ha bisogno di ribellarsi perché nessuno può schiavizzarla: e per rendere così toccante e totale (a giudicare dall’unanime commozione alla Festa di Roma) un film del genere, gli attori devono essere straordinari. Non solo lo sono, ma smettono anche di essere attori ed Emile Hirsch, Hal Holbrook, Brian Derker e Catherine Keener diventano semplicemente l’essenza del racconto e della natura. E’ per film del genere, e per personaggi come Penn, che non possiamo smettere di amare l’America, nonostante tutto.


La locandinaTitolo: Into the Wild – Nelle terre selvagge (Into the Wild)
Regia: Sean Penn
Sceneggiatura: Sean Penn
Fotografia: Eric Gautier
Interpreti: Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, William Hurt, Jena Malone, Brian Dierker, Catherine Keener, Vince Vaughn, Hal Holbrook, Kristen Stewart, Dan Burch, Joe Dustin, Cheryl Francis Harrington, Zach Galifianakis
Nazionalità: USA, 2007
Durata: 2h. 28′


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Attualmente ci sono 22 commenti a questo articolo:

  1. Riccardo ( ex Mickey Rourke ) ha detto:

    Film bellissimo.
    è sicuramente il film più maturo ( riguardo tema e sceneggiatura ) di Sean Penn ( come regista ).
    Ha affrontato un tema insolito.
    Mi è piaciuto tantissimo.
    Lo consiglio, a chi vuole un intenso e originale film drammatico d’avventura.

  2. Riccardo ( ex Mickey Rourke ) ha detto:

    Ma non aveva anche una nomination all’oscar per miglior film o mi sbaglio.

  3. Alberto Cassani ha detto:

    No: miglior montaggio e miglior attore non protagonista.

  4. Anonimo ha detto:

    DA VEDERE CON PENN ANCHE DEAD MAN WALKING.
    GRAN FILM DAVVERO.

    CASCHETTO GIUSEPPE.

  5. Marco ha detto:

    Assolutamente d’accordo con la recensione. Un meraviglioso inno alla vita. Straordinario. Da vedere e rivedere.

  6. Riccardo ha detto:

    Capolavoro. Sean Penn è bravo sia davanti che dietro la camera da presa. Non capisco però il divieto ai minori.

  7. Sebastiano ha detto:

    Comprensibile, invece: i minori avrebbero imparato qualcosa vedendo questo film, tipo bruciare il denaro e imparare a cavarsela da soli. Molto piu’ opportuno che i minori riempiano le sale dei filmoni di Natale, quando assumono il ruolo piu’ importante nella nostra societa’: spendere.

  8. Riccardo ha detto:

    commento ironico che in realtà mostra una cruda verità.

  9. Plissken ha detto:

    Nel mio piccolo concordo in molti punti con la recensione, tranne per il fatto che non credo che se il film fosse durato il doppio ne sarei stato felice.

    Volendo poi apporre una piccola critica, a mio avviso il protagonista, nonostante le sacrosante ragioni che l’hanno portato a rinnegare il suo status ed a ricercare un contatto viscerale con la natura mediante la solitudine, ha in un certo senso fatto appello proprio alle persone che ha incontrato per poi riuscire a trovare in toto la “giusta strada”. Persone facenti parte proprio di quella società che ha voluto ripudiare: questo per certi versi mi sembra un po’ un controsenso.

    Per il resto l’ho trovato intenso e a volte (fin troppo) poetico: se proprio bisogna “bruciare il denaro”, meglio tenerne almeno un minimo da parte, non si sa mai: se ti viene una colica renale negli USA l’assistenza medica non è gratuita mi pare, e fratello orso i reni te li strappa… !-)

    Mi è piaciuto molto il veder citare “Una storia vera”, uno dei film più belli (per i miei gusti personali ovviamente) che io abbia visto negli ultimi 10 anni 🙂

  10. Slimer ha detto:

    Unico film dove il binomio natura/uomo si trasforma in un duello all’ultimo sangue che vedrà uscirne vincitore il primo a scapito del secondo.
    Alex Supertramp ha sfidato la vita e la vita ha vinto. Il Magicbus diventerà la sua ultima dimora che ancora oggi attira centinaia di turisti/fans.
    Capolavoroassoluto

  11. Gaothaire ha detto:

    Vabbè, ovunque guardi trovo solo recensioni che incensino a dismisura questo film.
    Io sarà la decima volta che provo a guardarlo, e per la decima volta mi trovo a guardarmi attorno spaesato e infine a spegnere il televisore.
    Trasuda autocompiacimento da ogni poro, persino la luce della fotografia brilla come in una pubblicità mulino bianco; i personaggi sono stereotipati sino al parossismo (il protagonista è San Francesco white high class e i genitori delle vere e proprie merde, canonici burattini yankee privi di intelletto, il resto del coro è composto da tutta una serie di ”beautiful losers” con la morale pronta sempre per restare sui binari del più becero immaginario alternative made in USA); non vi è alcun distacco, anzi, indugia senza alcun ritegno in tutta quella serie di meravigliose caratteristiche proprie di Supertramp (a partire dalla voce narrante, che sbrodola miele dall’inizio alla fine, dipingendo il protagonista come un poeta guerriero dell’età classica).
    Peccato che, a parer mio, Supertramp non è San Francesco, Sean Penn non è Clint Eastwood, il cui tocco maturo e consapevole avrebbe di sicuro giovato alla pellicola, fornendo un ritratto umano e quindi sì immenso, ma così per me è solo un manifesto molto compiaciuto di un anti-eroe figlio di Tom Joad ma senza la sua umiltà e la sua trabordante umanità

  12. Sebastiano ha detto:

    E’ probabile che chi incensa questo film (non a dismisura, ma giustamente) lo abbia visto tutto.
    E al cinema.

  13. Alberto Cassani ha detto:

    Io non direi che è compiaciuto, a me è sembrato molto convinto di ciò che fa e ha dato l’impressione di qualcuno che fa qualcosa che gli piace. E’ vero però che all’inizio i personaggi (protagonista compreso) sono veramente odiosi, ma poi trovo che il film catturi molto lo spettatore nella psicologia del ragazzo.

  14. Sebastiano ha detto:

    Ma infatti!
    Vorrei annoiarmi sempre come ci si annoia con questo film!
    Io personalmente penso che la morte non sia mai stata rappresentata tanto bene come in questo film. Nemmeno con quella di HAL 9000.

  15. Gaothaire ha detto:

    La frecciatina sui film al cinema, Sebastiano, te la restituisco.
    Comunque io ho trovato i personaggi stereotipati, il protagonista è saccente ed esaltato e tutta la visione di insieme è manicheista e univoca.
    Pochi film mi hanno stizzito al punto da non finirli

  16. Stefano ha detto:

    Tempo fa, tramite newsletter, ho scritto qualche riga in merito a ‘Into the Wild’. Ho notato che le discussioni proseguono. Forse posso contribuire.

    Into the Wild è un lavoro fatto con evidente passione e cura, anche nei particolari; è profondamente americano ed enormemente (ri)evocativo. Eppure non è un film memorabile e, alla fine, quella che rimane è un’impressione di superficialità, di occasione perduta. L’aspettativa che un road movie è capace di suscitare –
    almeno per una certa parte di pubblico – è molto alta e finisce inevitabilmente per condizionarne il giudizio complessivo. Ma la causa per cui Into the Wild non è un capolavoro come forse avremmo voluto e avrebbe potuto essere è un’altra e nasce, ritengo, da una precisa scelta. Sean Penn, come Jon Krakauer – autore dell’omonimo libro del ’96 – prima di lui, non ha ritenuto la storia di Chris McCandless solamente interessante o degna di un soggetto cinematografico ma ne è rimasto totalmente coinvolto sul piano emotivo; con la vuota magnificenza della stragrande maggioranza dei film oggi prodotti, stracolmi di stimoli incapaci di proseguire al di là del nervo ottico, ha voluto realizzare il suo personale omaggio a Chris McCandless; i fatti vengono narrati
    nella maniera più vicina possibile alla realtà, nei limiti di una ricostruzione basata sulle testimonianze di parenti, amici, sulle immagini recuperate dal rullino della sua Olympus ed infine sulle note del diario (poche, in realtà). Penn era presumibilmente consapevole che la parte del pubblico appassionata del genere on the road avrebbe in ogni caso apprezzato il suo lavoro, mentre da un’altra percentuale del pubblico avrebbe ricevuto una stroncatura senza possibilità di appello. Era invece assolutamente certo che Chris McCandless sarebbe entrato – per rimanervi – nel cuore di una rimanente parte del pubblico, per motivi che andavano al di là dei meriti del suo film. Aveva ragione. Sean Penn ha conosciuto i genitori del ragazzo (spesso presenti sul set) e alcuni degli amici che Chris ha incontrato lungo il suo viaggio, parte dei quali ha preso parte attiva al film (per esempio il factotum Wayne Westerberg è stato assunto per dare una mano sul set, mentre Jim Gallien interpreta se stesso: l’ultima persona ad offrire un passaggio al ragazzo e quindi l’ultimo a vederlo in vita). Into The Wild è diventato per questo, e per altri motivi, l’antitesi di quello che avrebbe potuto essere, vale a dire un’apologia della vita on the road, ma rappresenta invece la disillusione e forse l’epitaffio di un modus vivendi capace di illudere
    brutalmente e costantemente generazioni anche molto distanti tra loro, ma allo stesso tempo fonte di inconsolabile dolore. Nel suo sincero e forse involontario revisionismo, Into the Wild trascina con sé un altro degli incrollabili miti americani, entrato nel DNA di un intero popolo: la ‘Frontiera’. Assieme a tutto lo stupefacente universo che è capace di rievocare, anche in chi non ha mai messo piede nel continente americano ma ha passato molte delle ore della sua vita immerso in film, libri e musica, sempre incapaci di circoscriverne la smisurata grandezza che cercavanodi illustrarne qualche tratto caratteristico, ha continuato nei decenni a esercitare il suo incessante fascino. Dileguatosi geograficamente il Far West è sopravvissuta nell’immaginario del popolo americano, è stata assimilata trasformandosi pressoché in un istinto; è stata dirottata da Jack
    London (chiamato ‘il re’ da McCandless) verso il Grande Nord ed è ancora oggi in grado di scagliare sulla strada individui tormentati dal quotidiano enigma della propria esistenza. Non c’è più all’orizzonte una terra promessa – miraggio di libertà assoluta – un continente da esplorare, una terra selvaggia da coltivare e da lasciare alla propria discendenza ma la Frontiera continua a sopravvivere come ideale. Entrare nel selvaggio corrisponde al ripulirsi dalle scorie di una civiltà decaduta e lasciarsi indietro tutte le mostruosità del vivere quotidiano.
    Ma è, in definitiva, una fuga. Combattendo per la sua sopravvivenza Chris McCandless ritrova la sua umanità. “I have had a happy life and thank the Lord. Goodbye and may God bless all!” ( Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica! ).
    Christopher mcCandless ‘non più’ Alexander Supertramp . In un altro film, splendido, ‘Paris, Texas’ di Wim Wenders, il fratello di un errabondo Travis (Harry Dean Stanton) incapace di fermare il proprio passo verso l’ignoto e con lo sguardo fisso sull’ orizzonte, chiede: “Vuoi dirmi dove sei diretto Travis? Che c’è laggiù? Non c’è niente laggiù”. La frontiera è proprio questo: niente, e si trova agli antipodi di tutto quello che si decide di
    lasciare alle spalle. Ma, strano a dirsi, il cerchio alla fine si chiude.
    La citazione chiave si trova in conclusione del film ed è di Lev Nikolaevi Tolstoj: “Ho vissuto molto, e ora credo di aver trovato cosa occorra per essere felici: una vita tranquilla, appartata, in campagna. Con la possibilità di essere utile con le persone che si lasciano aiutare, e che non sono abituate a ricevere. E un lavoro che si spera possa essere di una qualche utilità; e poi riposo, natura, libri, musica, amore per il prossimo. Questa è la mia idea di felicità. E poi, al di sopra di tutto, tu per compagna, e dei figli forse. Cosa può desiderare di più il cuore di un uomo?”. Ovvero: come avrebbe potuto essere tutto ciò che ho abbandonato.
    Una generazione come la nostra, orfana di punti di riferimento e con un recondito desiderio di risposte si risveglia alla voce dei martiri, ma soprattutto scava alla ricerca delle loro profonde motivazioni: quella di Chris McCandless era sbagliata. Per tutti, eccetto per lui, forse. Ciascuno di noi si è fatto un’idea di cosa Chris cercasse, e se un giorno riusciremo a ricreare in noi quel profondo silenzio probabilmente troveremo anche la risposta che per lui ha avuto il costo della sua giovane vita.
    Riposa in pace, ragazzo.

  17. Marco ha detto:

    Rivisto con enorme piacere. Grande, grande film che rivedrei sempre.
    Lasciarsi trasportare da SuperTramp è sempre bello.

  18. Alberto Cassani ha detto:

    Mi è capitato di leggere diverse critiche a questo film per la stupidità del personaggio protagonista, ma al di là di qualche esagerazione iniziale (il bruciare i soldi, ad esempio), tutta la sua epopea è incredibilmente trascinante.

  19. Stefano ha detto:

    Ciao Alberto, cos’è che ti fa considerare un’esagerazione il bruciare i soldi?

    Stefano

  20. Alberto Cassani ha detto:

    In realtà credo che a infastidirmi di più fosse stato il modo cinematografico in cui è raccontato quel momento, perché mentre il suo rifiuto della società in generale mi ha dato l’impressione di una reazione maturata nel tempo, ragionata e quindi comprensibile (nel senso letterale del termine), il bruciare i soldi è presentata come una reazione istintiva e a suo modo violenta. E proprio per la comprensione che riusciamo ad avere del resto della sua decisione, quel singolo gesto appare fuori luogo, mal pensato, esagerato appunto.

  21. Stefano ha detto:

    A me non ha dato un’impressione di forzatura o esagerazione, e mi è sembrata un’azione perfettamente omogenea con tutto il resto: indiscutibilmente coerente nella realtà dei fatti, ma – a mio modo di vedere –in linea anche nell’interpretazione cinematografica, soprattutto perché anticipata da un’azione meno appariscente, ma certamente più meditata e profonda, vale a dire la rinuncia a tutti i suoi risparmi (assegno e carte di credito). Una rinuncia per certi aspetti francescana, con tutti i limiti del caso: la scelta di spogliarsi e di restituire ad uno ad uno tutti gli ‘abiti’ che negli anni gli erano stati gettati addosso, suo malgrado. Un’infinità di ‘cose’ che lo soverchiavano e gli impedivano di percepire della vita ciò che gli avrebbe permesso di mantenere viva una – fosse anche sola una – speranza. Cos’altro cercava nei libri che leggeva se non gli indizi di chi quella VITA l’aveva veramente vissuta? Quegli abiti li restituisce, ad uno ad uno, fino a bruciare quel poco denaro che gli rimaneva nelle tasche. Non è marginale, è tutto lì: è un abbandono definitivo e totale di un mondo e di un modo di intendere la vita, una gioia altrimenti irraggiungibile.

  22. Alberto Cassani ha detto:

    Ma infatti io non contesto la rinuncia “francescana”, contesto il fatto che lui i soldi li bruci fisicamente. Non li usa per fare la carità, li distrugge come un virus maligno che dev’essere debellato. Ma il suo ragionamento fino a quel momento non è quello: lui non contesta la vita che fanno gli altri, ma il fatto che quella non è la vita vuole fare lui. Tranne che per i soldi che aveva nel portafoglio. Ora, io non so se McCandless l’abbia fatto realmente e in realtà non mi interessa saperlo, ma vedo quel bruciare i dollari (nel modo in cui ce lo racconta Penn) un gesto simbolico un po’ come può essere il bruciare una bandiera. Ma tutto il resto del film ci racconta un tipo di ribellione completamente diverso, che non si sposa per nulla con gesti di questo genere.

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