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Soundtrack: "Cloud Atlas" di Tykwer, Klimek & Heil

4 febbraio 2013 Soundtrack 0 Commenti
Roberto Pugliese, 1 Gennaio 2013: * * * *
In collaborazione con Colonne Sonore

Fin da Lola Corre, nel 1999, Tykwer, Klimek, Heil e soci hanno rappresentato un caso unico non solo in Europa per la capacità di mediare funambolicamente tra suggestioni e nostalgie sinfoniche tardo-ottocentesche, pulsioni moderniste, avanguardie elettroniche e tensioni sperimentali…


Se dieci mani vi sembran troppe per una soundtrack vuol dire che non conoscete il “metodo TKH”, varato nell’ormai remoto 1999 con Lola corre e via via consolidatosi in una serie di opere che definire visionarie è limitativo, e che ha toccato il proprio apice nel 2006 con la temeraria e sfrenata trasposizione su schermo (e in musica) di Profumo, storia di un assassino, dal best seller “infilmabile” di Patrick Süskind. No, per quanto deboli in matematica non abbiamo sbagliato a contare. Le mani sono dieci perché al collaudato trio di compositori formato dal (qui) coregista Tykwer con i suoi due più fedeli sodali devono aggiungersi i fondamentali contributi di Gabriel Mounsey in qualità di aiuto-orchestratore e “programmer” e di Gene Pritsker quale cocompositore: entrambi facenti parte di quel vero e proprio “collettivo” creativo-cine-musicale che fa capo appunto a Tykwer e che rappresenta – in Europa ma anche altrove – un caso unico per l’abilità diabolica con cui un team di giovani musicisti di area germanofona si dimostra capace di mediare funambolicamente fra suggestioni e nostalgie sinfoniche tardo-ottocentesche, pulsioni moderniste, avanguardie elettroniche e tensioni sperimentali.
Al contrario di quanto si potrebbe immaginare a fronte di un numero così ampio di soggetti creativi, musicalmente parlando il lavoro di Tykwer & Co. non possiede nulla di dispersivo o incoerente, ma si muove lungo una direttrice precisa: quella di un classicismo neoromantico coltissimo, a volte accademico (la soundtrack di Profumo, di impressionante e debordante luminosità rétro, poté avvalersi dei Berliner Philharmoniker sotto la bacchetta di Sir Simon Rattle), a volte spigliatamente techno-prog (Lola corre), nel quale la divisione dei compiti è probabilmente netta (Tykwer compone, Klimek supervisiona, Heil contribuisce come pianista e ispiratore “classico”, gli altri apportano continuità di ingredienti, forme e idee), che prende vita rigorosamente insieme alle riprese, trasformando gli score in “raddoppi” narrativi cogenti, vincolanti: in questo caso poi, provvisti anche come vedremo di un fortissimo “gancio” diegetico.

Tratto anch’esso da un romanzo apparentemente “infilmabile”, pubblicato nel 2004 dallo scrittore britannico David Mitchell, Cloud Atlas può apparire (ed essere letto) come un kolossal-divertissement-fantasy quasi spudorato, una sorta di Inception dall’effetto visionario moltiplicato nel quale un cast di star internazionali al servizio degli ex-fratelli (ora, come si sa, fratello e sorella) Andy e Lana Wachowski affiancati da Tykwer stesso mette a repentaglio la propria reputazione presentandosi travisato da un’infinita serie di improbabili make-up; oppure può essere interpretato come una spericolata riflessione filosofica (a rischio molto di New Age fuori tempo) sul filo rosso che collega tutti i destini individuali nel flusso di uno scorrere degli eventi e del tempo che ci precede e ci segue. Non è qui rilevante optare per una o l’altra lettura, specie in un film che si presenta sotto questo aspetto come un autentico “testo aperto”. Più interessante e utile è osservare come la struttura del lunghissimo racconto, concepita per segmenti cronologici distantissimi ma intimamente “connessi” non abbia minimamente spinto i compositori a una soundtrack “differenziata” per temi (un po’ di più per quanto riguarda l’atmosfera), ma li abbia invece sollecitati a concepire un unicum pulsante e a tratti allarmato, cosparso di disarmanti oasi liriche, affollato di aperture sinfoniche, corali e di virtuosismi orchestrali vorticosi, molto controllato nell’utilizzo dell’elettronica: e soprattutto coeso da due temi “forti”, anzi fortissimi, uno dei quali trova la propria ragion d’essere all’interno medesimo del film.

Il primo tema, esposto sin dal “Prelude” pianistico, è una melodia di quasi disarmante semplicità, ascendente e lamentosa nel suo insistere sulle note alte, la cui funzione è duplice in ragione del diverso adattamento orchestrale: tenero love theme per le numerose storie d’amore transtemporali che si dipanano lungo la narrazione oppure (“All boundaries are convention”) capace di trasformarsi in lenta, intensa “marcia del tempo” (la “Cloud Atlas March”) attraverso una serie di progressive variazioni strumentali costruite secondo principi di orchestrazione che hanno del miracoloso nella propria capacità emozionale: specie laddove THK accompagnano l’iterazione continua, quasi ossessiva della melodia principale sottolineandola con disegni in moto perpetuo degli archi gravi e acuti, in un crescendo architettonico di proporzioni stupefacenti, e pienamente assaporabile sia nella incombente ritualità del “Cloud Atlas Finale” che negli otto fantasmagorici minuti degli End Title, non poco debitori alla struttura raveliana del “Bolero”; oppure distendendola nel solare lirismo dei violini sostenuti da un minaccioso tambureggiare, come in “Kesselring”.
Una volta catturato lo spettatore-ascoltatore intorno a questo fortissimo nucleo leitmotivico e narrativo, ecco sorgere l’altro indispensabile elemento della partitura, il “gancio” diegetico di cui parlavamo sopra, il cosiddetto “Cloud Atlas Sextet” immaginato nel film e attribuito al giovane Robert Frobisher (Ben Winshaw), compositore omosessuale ed emergente negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale. A differenza del primo tema, questo si muove specularmente in direzione opposta, lanciando negli archi un decorso melodico dagli intervalli amplissimi e discendenti, dalla esasperata e teatrale cantabilità che riesce cionondimeno (“Temple of sacrifice”) a tramutarsi in struggente reminiscenza pianistica d’amore poi convogliata in un accorato, pieno fraseggio d’archi; o a comparire per piccoli frammenti nel glockenspiel che tintinna all’interno del ritmato e caricaturale “Cavendish in distress” o, infine, a divenire pietoso requiem per il destino dell’umanità “unanimizzata” e disumanizzata del futuro “genocratico” ambientato nella Corea del 2144. Il “Cloud Atlas Sextet” è comunque già divenuto punto di partenza per lo sviluppo di una pagina di “musica assoluta”, se è vero come è vero che il succitato chitarrista-compositore-orchestratore-rapper (e numerose altre cose) statunitense Gene Pritsker, musicista vulcanico prolificissimo a cui è sconosciuta la distinzione fra “generi”, da tempo collaboratore essenziale del gruppo TKH, ne ha ricavato una “Cloud Atlas Symphony” in ben sei movimenti – dando così sostanza al sogno creativo dello sfortunato Frobisher – che è stata eseguita per la prima volta l’11 novembre 2012 all’Impuls Festival di Halle, in Germania, dalla MDR Symphony Orchestra di Lipsia sotto la direzione di Kristjan Järvi.
Il “Cloud Atlas Sextet” si configura dunque come un ulteriore capitolo sul fronte di quei pezzi “paraclassici” immaginati come preesistenti ma in realtà appositamente composti per un film, e che costituiscono per un musicista del cinema la sfida più coraggiosa in termini linguistici: come ben ci insegnano esempi che vanno dall'”Aria di Salammbô” e dal “Concerto Macabre” di Herrmann rispettivamente per Quarto potere e Nelle tenebre della metropoli alla “Sinfonia Americana” di Michael Kamen per Goobye mr. Holland, o dalla “Sonata di Vinteuil” di Henze per Un amore di Swann al Concerto per violino di John Corigliano in Il violino rosso, sino ovviamente al “canone inverso” morriconiano nell’omonimo film del 2000 di Ricky Tognazzi.
Appare quindi del tutto evidente la complessità eclettica e per così dire “paratattica” del lavoro di Tykwer, Klimek, Heil & soci, che allinea elementi strutturalmente paritari in funzione trasversale alle sei epoche narrative del film e connettendoli quasi ostentatamente attraverso l’utilizzo della musica. A volte, va aggiunto, anche con spiazzanti anacronismi, come il ricorso all’elettronica percussiva e aggressiva nel segmento post-atomico e para-preistorico “Shosha’s hollow”: anche se su questo fronte i suoni surreali e innaturali di “Papa Song” non hanno rivali. Così come nelle pagine d’azione (“The escape”, “Chasing Luisa Rey”) il dinamismo di archi, in ostinato o in glissando, e la brutalità degli ottoni e delle percussioni svelano negli autori un possesso delle “convenzioni” di genere che nulla ha da invidiare agli artigiani hollywoodiani di settore, anzi ampiamente surclassati in termini di originalità tematica e icasticità drammatica.

In sintesi è un viaggio musicale incantatorio e provocatoriamente frastagliato, frammentato, quello in cui ci sprofondano TKH, sospeso in precario equilibrio fra memorie del passato e insondabili abissi del futuribile, e dove il punto di riferimento della loro generosa, a tratti straripante partitura sembra costituire l’unica possibilità di approdo e di orientamento.


Titolo: Cloud Atlas (Id.)

Compositore: Tom Tykwer, Johnny Klimek, Reinhold Heil

Etichetta: Water Tower Music, 2013

Numero dei brani: 21

Durata: 77′ 25”


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