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L'uomo al mio fianco è un mostro inumano?

20 febbraio 2012 Articoli 17 Commenti
Who goes there?

Febbraio 2012

John W. Campbell Jr è stato una delle figure più importanti della storia della fantascienza letteraria. Ha ideato space opera ad ampio respiro e di buon successo, ma è forse come direttore della rivista Astounding Science Fiction che la sua influenza si è fatta più sentire…


John W. Campbell Jr visto da Freas Frank KellyJohn W. Campbell Jr è stato una delle figure più importanti della storia della fantascienza letteraria. Ha ideato space opera ad ampio respiro e di buon successo, ma è forse come direttore della rivista antologica Astounding Science Fiction che la sua influenza si è fatta più sentire. Nel dicembre 1937, Campbell eredita la guida di Astounding Stories dalle mani di F. Orlin Tremaine, e a fianco del cambio di nome impone anche un deciso cambio di direzione. La rivista fino a quel momento caratterizzata da storie pulp, ricche di azione, piene di fiction e a basso contenuto di science, si apre alla fantascienza più adulta. Campbell vuole racconti più plausibili, eroi più umani e scrittori più attenti. Sotto la sua guida fanno la loro prima apparizione molti degli autori che hanno definito l’idea di fantascienza che abbiamo oggi, da Heinlein a Sturgeon, da van Vogt ad Asimov (col quale Campbell condivide l’ideazione delle Tre Leggi della Robotica). Per dirla proprio con Asimov:

Con il suo esempio, i suoi consigli e la sua indomabile tenacia costrinse prima Astounding e poi tutto il mondo della fantascienza a seguire i suoi modelli. Abbandonò le vecchie tendenze del settore, demolì i personaggi che lo avevano popolato, sradicò le trame dozzinali, estirpò le rubriche pseudo scientifiche che apparivano nei supplementi domenicali. Riuscì insomma a distruggere l’immagine del pulp. Pretese che gli scrittori comprendessero il significato della parola scienza, ma anche la natura umana; una richiesta che molti degli autori degli Anni Trenta non erano in grado di soddisfare. Campbell non cercò alcun compromesso: coloro che non disponevano dei requisiti da lui ritenuti necessari non riuscirono a vendergli neppure un racconto. Fu un cataclisma paragonabile a quello avvenuto dieci anni prima ad Hollywood con l’introduzione del parlato. […] Il cambiamento fu di una portata tanto vasta e seria da far capire che la science fiction aveva ormai un nome come letteratura adulta e quel nome si identificava con John W. Campbell. […] Campbell era la stella polare attorno la quale ruotava tutta la fantascienza.

È infatti soprattutto grazie al lavoro di redazione di Campbell che la fantascienza vive la sua età dell’oro, nel corso degli anni Quaranta, ma sono soprattutto i racconti di Don A. Stuart a fare da battistrada per la rivoluzione voluta da Campbell. Don A. Stuart – così come Karl Van Campen e Arthur McCann – era uno pseudonimo utilizzato da John Wood Campbell Jr per pubblicare i suoi racconti nella testata da lui diretta. Campbell è stato in effetti uno dei pochi autori in grado di scrivere in maniera diversa a seconda del nome con il quale firmava il proprio lavoro. Forse non sempre in quanto a stile, ma certamente in quanto a tematiche. Se le space opera erano firmate col suo vero nome, i suoi racconti brevi erano affidati agli pseudonimi. Come Don A. Stuart, fu autore di storie realmente inquietanti e spesso caratterizzate da uno spirito di riflessione inusuale per l’epoca. Una di queste storie, pubblicata nel 1938, era intitolata Who goes there?

Il posto puzzava. Una strana, indefinibile, puzza che solo le baracche sepolte dai ghiacci dell’Antartico possono avere, un misto di fetido sudore umano e di quel pesante tanfo simile all’olio di pesce tipico del grasso di foca fuso. L’uso esagerato di linimenti combatteva l’odore selvatico delle pellicce impregnate di sudore e neve. L’odore acre del grasso da cucina bruciato e quello animale, non del tutto spiacevole, dei cani, stemperato dal tempo aleggiavano nell’aria.
Il persistente odore dell’olio per macchine contrastava pesantemente con la scia dei finimenti dei vestiti e delle pelli. Eppure, in qualche modo, nonostante tutto quel fetore di esseri umani e non – cani, macchine e pentole – si percepiva un altro odore. Era una strana cosa, da mal di testa, il pallido indizio di un odore alieno agli odori del lavoro e della vita. Ma era l’odore di una vita. E arrivava dalla cosa che giaceva legata e impacchettata sul tavolo, che gocciolava lentamente, inesorabilmente, sulle assi, umida e gracile sotto la luce della lampadina nuda.

La copertina della prima raccolta di racconti di John W. Campbell JrFin dalle prime righe del suo racconto, Campbell ci trascina in un mondo disgustoso, repellente, duro e inospitale. Fin dalle prime righe, rende chiaro cosa davvero è Big Magnet, la base scientifica in cui è ambientata la sua storia. Non si perde in chiacchiere, anche se lo farà più avanti, e senza dubbio utilizza qualche aggettivo di troppo, per lo meno rispetto agli stili asciutti cui la moderna letteratura di genere ci ha abituarti. Ma nel giro di poche pagine ci presenta il suo nutrito gruppo di protagonisti, e lo fa con una precisione nei particolari che contrasta volutamente con la pochezza delle descrizioni della ‘cosa’. Campbell racconta la storia dal punto di vista degli esseri umani, per loro – e per noi lettori – la ‘cosa’ è a tutti gli effetti un essere alieno. E se il gruppo di scienziati che si trova a fronteggiare la minaccia proveniente dallo spazio è numeroso, il vero protagonista è solo uno.

Staccandosi dalla parete resa azzurra dal fumo, la figura di McReady sembrava uscita da uno di quei miti ormai dimenticati, una massiccia statua di bronzo dotata di vita, e capace di camminare. Fece sentire tutto il suo metro e novantatré mentre si avvicinava al tavolo e, con quella sua caratteristica occhiata verso l’alto come per assicurarsi di aver sufficiente spazio sotto le travi del soffitto, si rialzò completamente. La rozza, vistosa, giacca a vento arancione che ancora aveva indosso, sulla sua figura massiccia in qualche modo non sembrava fuori posto. Anche qui, oltre un metro al di sotto dei trascinanti venti che fischiavano sulle distese antartiche sopra il soffitto, il freddo del continente di ghiaccio riusciva ad arrivare, e dava un significato all’asprezza di quell’uomo. Ed era un uomo di bronzo – con quella sua folta barba rossiccia e i capelli dello stesso colore. Anche quelle sue mani nodose che afferravano e rilasciavano, afferravano e rilasciavano il tavolo, erano di bronzo. Persino i suoi profondi occhi, incassati sotto le folte sopracciglia, erano di bronzo. La resistenza al tempo tipica del metallo era evidente nei rocciosi lineamenti del suo viso, e nel tono caldo della sua potente voce.

È McReady, un meteorologo con alle spalle degli studi interrotti in medicina, a farci da vero narratore. È attraverso le sue parole che capiamo cosa davvero sia successo – e cosa sta succedendo man mano che l’intreccio si complica – ed è grazie ai suoi discorsi che ci possiamo rendere conto di quale sia l’idea di letteratura che ha John W. Campbell. McReady, infatti, chiarisce subito un importante concetto – la creatura stesa sul tavolo non è di origine terrestre – quindi parte a raccontare ai suoi compagni come, dove e perché l’hanno ritrovata. E lo fa con una dovizia di particolari tecnici – forse non reali ma certamente realistici – a completo uso e consumo di noi lettori: agli uomini che gli stanno accanto non serve certo qualcuno che ricordi loro come si comporta una bussola al Polo, o quali materiali hanno proprietà magnetiche, o come la temperatura si alzi quando soffia il vento… Di una cosa hanno però bisogno: una descrizione dell’astronave.

Qualcosa arrivò giù dal cielo, una nave. L’abbiamo vista lì, intrappolata tra i ghiacci, qualcosa di simile e un sottomarino senza la torretta e i vani direzionali. 85 metri di lunghezza e 15 di larghezza massima. […] È scesa dal cielo spinta da forze che noi umani ancora non abbiamo scoperto, e in qualche modo – forse qualcosa è andato storto – è rimasta imprigionata dal campo magnetico terrestre. È scesa qui a sud, probabilmente priva di controllo, e si è messa a girare intorno al Polo. È un posto selvaggio qui attorno, ma quando ancora l’Antartico si stava ghiacciando doveva essere mille volte peggio. Ci dovevano essere tormente di neve, alluvioni e pesanti nevicate. I cicloni dovevano essere particolarmente violenti, con i venti che soffiavano una vera e propria coperta di neve contro quella montagna.
La nave si è schiantata contro il ghiaccio, ed è andata in pezzi. Non tutti i suoi occupanti sono rimasti uccisi, ma la nave dev’essersi distrutta, con il sistema di navigazione inutilizzabile. Secondo Norris è entrato in contrasto con il campo magnetico terrestre. Nessun artefatto può entrare in collisione con l’incredibile immensità delle forze naturali di un pianeta e uscire vincitore.
Uno dei passeggeri è uscito dalla nave. I venti che abbiamo misurato in quel luogo non sono mai scesi a meno di 65 chilometri all’ora, e la temperatura non si è mai alzata al di sopra dei 50 gradi sotto zero. Allora i venti dovevano essere più forti. E c’era una vera e propria alluvione in corso. La cosa si dev’essere persa nel giro di dieci passi.

È chiaro da questo suo racconto un concetto non nuovo ma particolarmente intrigante che però viene totalmente ignorato nel primo film e che non viene più ripreso neanche dallo stesso Campbell: «È rimasto intrappolato in quei ghiacci da quando l’Antartico si è congelato, venti milioni di anni fa. Non c’è mai stato alcun disgelo, da queste parti». Addirittura, nel film di Hawks è proprio l’arrivo sulla Terra dell’astronave aliena che mette in moto la storia. Ed è sottintesa anche un’altra cosa, particolarmente inquietante: ce ne sono altri, come la ‘cosa’. Anche se, bisogna ammettere, una ‘cosa’ è più che sufficiente… Campbell lo sapeva e ha raccontato come gli scienziati hanno fatto accidentalmente cadere sotto una valanga di ghiaccio l’astronave e i suoi tre occupanti. Un’astronave che «avrebbe potuto donare all’Uomo la conquista della spazio».

Una vignetta di Jack Abel dall'adattamento a fumetti pubblicato su Starstream 1Insomma, come detto John W. Campbell/Don A. Stuart riempiva le sue pagine di particolari tecnici e descrizioni particolarmente vivide. La precisione, magari solo presunta, di tutti questi dettagli finisce per rendere ancora più efficace il momento in cui la fiction si inserisce nella science, e proprio il passaggio appena citato – che descrive con dovizia di particolari l’ambiente che ha accolto il naufragio dell’astronave – ne è un perfetto esempio: Campbell visualizza alla perfezione una scena che, paradossalmente, né Hawks e Nyby né Carpenter vorranno mostrare, rendendo estremamente forte il contrasto tra il nostro inospitale pianeta di due milioni di anni fa e il piccolo (ma non stupido, come si vedrà più avanti) visitatore alieno. E la “guerra dei mondi” che anche stavolta la Terra stessa sembra avere vinto, è in realtà appena iniziata…
Ma se la fame di conoscenza dell’uomo – dello scienziato – non si fosse fatta sentire, esattamente come si è fatta sentire al minuto 35 di Alien, questa guerra non sarebbe mai ricominciata. Blair, il biologo del gruppo, vorrebbe scongelare la creatura per poterla esaminare. Sapendo del comportamento di alcuni microscopici esseri terrestri capaci di andare in ibernazione spontanea e quindi tornare a vivere a seconda delle stagioni – capacità propria anche dei pesci – non tutti i suoi compagni sono d’accordo. E proprio qui sta il punto focale per tentare di comprendere la natura della ‘cosa’: Blair nega con decisione la possibilità che anche gli esseri con una struttura molecolare complessa come sembra essere la ‘cosa’ possano risvegliarsi dall’ibernazione. Sembra, perché si capirà più avanti che quell’essere non è paragonabile a nulla di quanto si sia mai visto sulla Terra.
Nel corso della discussione, Campbell ci dà anche la sua personale opinione su quanto sta alla base del romanzo di H.G. Wells citato più sopra, La guerra dei mondi: secondo Blair – e secondo Wells – la ‘cosa’ non è immune all’uomo e alla Terra e non può quindi sopravvivere nel nostro ambiente; l’opinione del medico del gruppo – e di Campbell – è invece che «l’uomo non può infettare né essere infettato dai germi che derivano dal corpo di un parente relativamente prossimo come un serpente. E vi posso assicurare che i serpenti sono molto più simili a noi di quanto non lo sia quella… cosa». E per farci capire quanto lontana da noi sia, la ‘cosa’, Campbell ce ne dà finalmente una breve descrizione: «loro non hanno ancora visto quei suoi tre occhi rossi, né quei capelli blu che sembrano vermi che strisciano. Strisciano – dannazione, sono lì che strisciano nel ghiaccio anche adesso!»
Nonostante la reazione di terrore e raccapriccio che molti dei 37 uomini che compongono il gruppo hanno alla vista della creatura, la loro poca conoscenza della sua reale natura li porta ad assecondare la volontà di Blair e decidere di scongelare l’alieno con la speranza di poterne analizzare le cellule e capire per lo meno da quale pianeta – da che tipo di pianeta – proviene. Meno di venti ore dopo, il panico si impossessa di Big Magnet. La ‘cosa’ non è terrestre, e quindi le leggi della Natura terrestre non sono applicabili: appena il ghiaccio si è sciolto e il suo corpo ha ripreso la giusta consistenza, la ‘cosa’ si è alzata e se n’è andata.

La action figure de La Cosa prodotta dalla Dark Horse nel 2006Anche se non guida formalmente la caccia, è subito evidente che McReady è la persona dalla quale tutti si aspettano una soluzione, dalla quale si aspettano la cosa giusta: «qualunque cosa McReady avesse in mente, si poteva scommettere che avrebbe funzionato».
E infatti il suo piano funziona: la ‘cosa’ finisce arrostita nel canile dopo aver ucciso il cane Charnauk, e il biologo Blair ha l’occasione di tornare a riflettere sulla natura del mostro.

Penso fosse nativo di un pianeta più caldo della Terra. Nella sua forma naturale non avrebbe potuto sopravvivere a quel freddo. Sulla Terra non ci sono forme di vita in grado di sopravvivere all’inverno dell’Antartico, ma il cane è il miglior compromesso. […] Tutti gli esseri viventi sono formati da gelatina… protoplasma e piccole cose submicroscopiche chiamate nuclei, che controllano la massa protoplasmica. Questa cosa era solamente una variante dello stesso piano di Madre Natura; cellule composte di protoplasma, controllato da nuclei infinitamente piccoli. […] Semplicemente, in questa creatura le cellule-nuclei sono in grado di controllare le cellule di protoplasma a volontà. Ha mangiato Charnauk, e mentre lo mangiava ne studiava le cellule dei tessuti, e modificava le proprie cellule per imitarle alla perfezione. […] Può imitare, ma deve mantenere in una certa misura la propria chimica corporea, il proprio metabolismo. Se non lo facesse diverrebbe un cane, e sarebbe un cane e niente più. Dev’essere l’imitazione di un cane. Per cui, lo si può individuare attraverso un test del siero sanguigno.

Ancora una volta, però, gli uomini sottovalutano l’essere superiore, un essere che in realtà non aveva per nulla perso la prima battaglia con la Terra ma che aveva invece deciso di farsi “catturare” per poi sferrare il proprio attacco.

Quando è uscito dall’astronave si è guardato intorno. Con l’Antartico coperto dai ghiacci come lo era all’epoca, preferì farsi coprire dai ghiacci. Un essere che ha capito subito che in forma canina non avrebbe comunque potuto andare lontano: non c’è nulla che possa arrivare fino all’Oceano, da qui – tranne noi. Noi abbiamo il cervello. Noi possiamo farlo. Non capite? Deve imitare noi, dev’essere uno di noi. E’ l’unico modo in cui può far volare un aeroplano, volare per un paio d’ore e dominare – essere – tutta la popolazione della Terra. Un mondo pronto a essere sottomesso, se imita noi!

Sfruttando la sua capacità di scindersi in più esseri diversi, completamente autonomi e autosufficienti, la ‘cosa’ ha innanzi tutto preso il posto del fisico Connant e solo dopo si è recata nel canile, dov’è stata uccisa. Campbell suggerisce subito questa possibilità, prima con un breve dialogo tra Connant e Blair («è un miracolo che quella creatura non mi abbia mangiato mentre dormivo» – «forse l’ha fat… ehm… dobbiamo trovarla») e poi col racconto da parte di Norris di un incubo avuto la notte precedente, in cui la ‘cosa’ era in grado di leggere la mente e quindi comportarsi a tutti gli effetti come l’essere che sta imitando. La coincidenza che Norris usi proprio Connant come esempio fa capire ai personaggi che devono assolutamente trovare, in fretta, un modo per essere sicuri che nessuno di loro è una ‘cosa’, ma rende troppo evidente il meccanismo al lettore in un momento in cui sarebbe stato forse meglio mantenere ancora i dubbi. Connant, nella mente del lettore, è una ‘cosa’ perché tutti gli indizi puntano contro di lui, così nelle pagine che seguono chi legge si ritiene superiore ai personaggi, assistendo al loro percorso nella ricerca di una soluzione che lui già conosce. Quindi, superata una complessa spiegazione di come si effettua l’esame del siero del sangue e dribblata la dilatazione temporale necessaria all’autore per permettere ai suoi personaggi di preparare in maniera credibile il test, ecco il lettore rimanere di sasso quando, nove pagine dopo, le cose si dimostrano diverse da come lui sapeva fossero. Il test è positivo: Connant è umano e la ‘cosa’ è davvero morta. Ma no, la mente del lettore non accetta questa soluzione: lui sa che Connant non è umano, ci dev’essere un errore, un trucco…
Poche righe dopo, infatti, Campbell svela il mistero, ma ancora una volta la soluzione non è quella che ci si aspetta: il test è positivo perché il sangue di contrasto è infetto. Forse Connant è umano, o forse è davvero una ‘cosa’, ma sicuramente uno tra il dottor Copper e il comandate Garry è un alieno. Questo fatto ha per lo meno il vantaggio di dare ufficialità a quanto era chiaro fin dall’inizio del racconto: «McReady, comandi tu, ora. Che Dio ti assista, perché io non posso farlo».
La situazione, ora, è davvero intricata e con l’andare delle pagine si complica ancora di più, mandando per aria tutte le convinzioni del lettore, che si rende conto di non saperne ancora abbastanza sulla ‘cosa’, esattamente come i personaggi: «Non abbiamo speranze. Perché non ne sappiamo abbastanza, e siamo talmente spaventati da non riuscire a pensare chiaramente».

Raffigurazione de La Cosa per il volume Barlowe's Guide to Extra-TerrestrialsSe l’idea di Campbell è quella di una narrativa fantascientifica chiara e plausibile, non è comunque l’imprevedibilità dell’intreccio che gli manca: il mostro ha già imitato le 4 mucche, il toro e 69 dei 70 cani di Big Magnet, lasciando vivere proprio quello usato per l’esperimento. McReady brucia tutti gli animali “infetti”, così ora la ‘cosa’ è costretta a imitare l’uomo. Ma come riconoscere un uomo dalla sua imitazione? «Se gli spari nel cuore e non muore, vuol dire che è un mostro».
Da questo punto in poi, per diverse pagine la vera protagonista del racconto diventa la paranoia. Almeno un essere umano è in realtà un mostro, forse più di uno, anche se gli uomini “veri” sono evidentemente la maggioranza, altrimenti gli alieni avrebbero già preso il controllo della Base. Ma ormai non c’è proprio alcun test possibile per individuare la ‘cosa’, così tutti tengono sotto controllo tutti e nessuno si muove più da solo: «l’uomo al mio fianco è un mostro inumano?» È in questo stato di paranoia che salta nuovamente fuori la capacità della ‘cosa’ di leggere la mente. McReady elabora un piano per riconoscere la ‘cosa’, ma è conscio che l’alieno sa cosa lui ha in testa. Il test definitivo si basa sul concetto di “totalità” della ‘cosa’: ogni parte è autosufficiente, ogni parte è un essere a sé stante. Se la “cosa” sanguina, il suo sangue diviene a tutti gli effetti un nuovo essere vivente, e come tale cercherebbe di proteggere la propria vita. Così, toccando qualche goccia di sangue alieno con un cavo metallico rovente si può valutare la reazione e capire se il soggetto è umano o meno.
Grazie a questo test, 14 ‘cose’ vengono scoperte all’interno dell’ormai decimato gruppo di esseri umani e viene dimostrato nuovamente – seppur non con la giusta enfasi da parte di Campbell – come l’alieno sia temibile sotto ogni aspetto. Quando, infatti, si scopre che le mucche di cui tutti hanno bevuto il latte sono in realtà dei mostri alieni, Kinner perde la testa e viene confinato in una stanza, dove si mette ad urlare preghiere a squarciagola. Fino a quando, esasperato dai suoi cantici, Clark gliela taglia, la gola. Ma esaminando il cadavere, McReady scopre che Kinner era in realtà una ‘cosa’, e che non è per nulla morto. Così, pare che Clark abbia dato un vantaggio agli esseri umani. «Ragazzi, vi presento Clark: l’unico che è certamente umano! Clark, che dimostra di essere umano tentando un omicidio. E fallendo…» aveva detto McReady. Invece, la ‘cosa’ ha semplicemente tentato di sviare i sospetti, perché con il test del sangue si scopre che anche Clark era un alieno. E questo dimostra che la ‘cosa’ ha una mente particolarmente machiavellica, ben al di là di quanto si poteva pensare, ben al di là di quanto eravamo abituati a trovare nelle storie di fantascienza classica: un mostro venuto dallo spazio è un mostro e basta, non è un mostro intelligente. Questa ‘cosa’, invece, ripeterà lo stesso giochetto anche con Blair, che si era volontariamente rinchiuso in una baracca solitaria per evitare di essere “contagiato” e che nell’epilogo del racconto si dimostrerà un alieno. Ma anche lui come tutti gli altri sarà ucciso da McReady e soci, prima che abbia tempo di portare a termine la costruzione di uno zaino anti-gravitazionale ad energia atomica che gli avrebbe permesso di lasciare l’Antartico volando. Prima anche che possa imitare il primo albatro della stagione, che volteggiava sopra la sua baracca al momento dell’arrivo di McReady.
Sarebbe bastata mezz’ora di ritardo, e la guerra l’avrebbero vinta gli invasori alieni, ma forse ha ragione McReady: evidentemente Dio è in ascolto anche a quelle latitudini, e mezz’ora è stata un margine sufficiente per salvare il mondo.


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Attualmente ci sono 17 commenti a questo articolo:

  1. Plissken ha detto:

    Cassani for President! 🙂

    Bellissimo articolo, che ho letto con grande piacere considerando che non ho mai avuto modo di visionare il romanzo e che, come già ho espresso, sono un fan del film di Carpenter.

    Interessante l’analisi che esplica come il romanzo di Campbell si possa per molti versi considerare l’archetipo di una fantascienza più “moderna” e soprattutto evoluta, adulta. Forse solo Lang era già riuscito a “nobilitare” il genere, ma in maniera diversa.

    Mi viene spontaneo pensare ai film di fantascienza anni ’50 in generale… mi aggradano quelle sensazioni naif che comprendono soggetti piuttosto semplici, effetti speciali primordiali, l’America anni ’50 della Guerra fredda. Certo non posso dire di aver avuto modo di vedere un grande quantitativo di queste pellicole: oltre a “la cosa da un altro mondo” ed i classici quali “la guerra dei mondi”, “ultimatum alla terra”, “il pianeta proibito”, “l’invasione degli ultracorpi” e così via mi mancano film tratti da riviste sfacciatamente “pulp”: sono quelle omaggiate da Burton con “Mars Attack”, se ben ricordo. Non so se pellicole quali “la terra contro i dischi volanti” od altre chicche-Harryhausen possano dirsi facenti parte del genere: le riviste non le ho mai lette… mi chiedo se esistano delle ristampe.
    Ogni tanto fa capolino nella memoria qualche pellicola meno conosciuta, come ad esempio “La meteora infernale” che all’epoca del B/N RAI mi piacque moltissimo. Comunque, nonostante io abbia visionato a colori alcuni DVD in tema, il ricordo continua ad essere in bianco e nero.

    Credo che Campbell possa essere considerato l’artefice di una sostanziale evoluzione nel genere, se ho ben capito: Nyby-Hawks non ebbero la possibilità di portare sul grande schermo il suo “vero” romanzo… ci vollero addirittura trent’anni, e per fortuna ci pensò Carpenter…

  2. Alberto Cassani ha detto:

    Io ho l’impressione che quelli che sono diventati i grandi classici della fantascienza cinematografica anni Cinquanta siano più un’eccezione che non la regola, nel senso che hanno una profondità e forse anche un’attenzione produttiva che fatico a pensare avessero anche le produzioni meno blasonate, all’interno del genere. Certo, tra “Robot Monster” e “Cittadino dello spazio” c’è senz’altro una via di mezzo, ma considerata la dignità quasi nulla che il genere fantascientifico aveva all’epoca, non solo al cinema, e i budget ridicoli, dubito che questa via di mezzo fosse particolarmente degna di nota.

    Campbell è stato una figura di primaria importanza per la crescita della fantascienza letteraria. Forse dire che è grazie a lui che la sf è diventata adulta è un po’ troppo, ma di sicuro quasi tutti gli autori che hanno permesso al genere di trovare rispetto hanno mosso i primni passi con lui e sotto le sue indicazioni.

  3. Plissken ha detto:

    Si, in verità mi sono spiegato male: intendevo con “archetipo” che Campbell ha, diciamo così, “posto la prima pietra” per una fantascienza più “adulta” più che esserne l’artefice. 🙂

    Comunque sarei propenso ad avvalorare la tua impressione, anche perché, mi ripeto, non ho avuto modo di vedere oltre ai classici molti film anni ’50 di fantascienza: nemmeno “Monster Robot” ho visto mannaggia… so che è considerato piuttosto “trash” ma mi piacerebbe poterlo visionare. Evidentemente il livello della filmografia di genere non era (come hai specificato, appunto) granché, visto che non ricordo nemmeno negli anni ’70 e ’80 passaggi in TV di dette pellicole, tranne poche eccezioni tra cui ad esempio “The blob”.

    Comunque… ribadisco l’apprezzamento per l’articolo e per gli stralci del racconto di Campbell.

    Scusa, per curiosità: ma tu oltre ad essere un Critico insegni in qualche scuola Storia del Cinema? Oppure alcuni tuoi scritti (ad esempio “come si scrive una sceneggiatura) sono di supporto alle “normali” materie?

  4. Alberto Cassani ha detto:

    Io ho tenuto per due anni un corso di “introduzione al linguaggio cinematografico” presso la scuola media del paesino della campagna milanese dove vivo; “come si scrive una sceneggiatura” e “viaggio dentro un film” erano le due dispense che usavo come testi all’inizio del corso, che verteva comunque soprattutto sulla visione e spiegazione di alcuni film in qualche modo collegati a quello che i ragazzi stavano studiando nelle altre materie. “Come si scrive una sceneggiatura” lo usano come testo base per un corso di sceneggiatura a Firenze e l’hanno inserito come allegato nella versione italiana di un software per scrivere sceneggiature.

    “Robot Monster” è una vaccata che definire trash è poco. Qui c’è un trailer sufficientemente esplicativo: http://youtu.be/cq9IKsH9BXg

    Comunque grazie per l’apprezzamento all’articolo.

  5. Plissken ha detto:

    Cribbio, sembra il fratello ciccio dell’orso Yoghi con un casco in testa… 😀

    Grazie a te per la risposta inerente il corso, spero di non essere stato indiscreto. In effetti le dispense sono palesemente ben fatte, non c’è che dire, lo dimostra anche la miriade di interventi annessi.

    In verità non ho la più pallida idea di che tipologia di “scuole” o facoltà esistano in Italia con riferimento al cinema. Per studiare da critico ad esempio, vi sono facoltà specifiche con corsi/lauree triennali/quinquennali come per gli altri indirizzi?
    Non che mi interessi personalmente of course (oramai…) giusto per curiosità; dalle mie parti non conosco nessuno (ma proprio nessuno) che abbia intrapreso studi in tal senso…

  6. Alberto Cassani ha detto:

    Non credo che esistano dei corsi di laurea dedicati esclusivamente alla critica cinematografica. Ci sono sicuramente dei corsi di storia della critica inseriti in corsi di laurea in storia del cinema, ma credo che molti ragazzi frequentino soprattutto corsi privati sull’argomento.

  7. Davide ha detto:

    Davvero esaltante! Complimentissimi…

    Io sono un profano del cinema storico sulla fantascienza ma devo dire che l’ambientazione (Montagne della Follia) e anche lo stile mi hanno ricordato moltissimo Lovecraft.

    Quindi se non ho capito male Carpenter ha attinto a piene mani da questo racconto.

    Leggo tantissimo ma la fantascienza è sempre un argomento delicato per le mie letture.

    Comunque ribadisco il piacere che ho avuto nel leggere questo articolo.

    Davide.

  8. Alberto Cassani ha detto:

    No, no, Davide. Non è che Carpenter ha attinto a piene mani da questo racconto, i film di Hawks e Carpenter sono tratti ufficialmente da questo racconto, pur con tutti i cambiamenti che sono stati fatti in sede di sceneggiatura entrambe le volte. Il terzo film, che esce da noi a maggio, si basa invece sul film di Carpenter ed è abbastanza slegato da quanto scritto da Campbell nonostante riproponga la stessa tipologia di alieno.

    L’influenza delle “Montagne della follia” di Lovecraft è evidente soprattutto per quanto riguarda l’ambientazione e lo stato di paranoia in cui cadono i protagonisti (piuttosto tipico di Lovecraft, tra l’altro). Dal punto di vista stilistico in realtà non saprei, perché il racconto di Lovecraft non lo leggo da una vita, ma a memoria mi sembra molto meno prolisso e ridondante.

    La fantascienza è spesso un grande calderone nel quale gli autori mettono ciò che più gli pare, dando a volte solo una patina fantastica a un racconto che avrebbe funzionato ugualmente se ambientato nel “qui e ora”. Però è un genere che ha talmente tante sfaccettature diverse da rendere impossibile non riuscire a trovare qualcosa che ci interessi. Basta avere la pazienza di cercare.

    Grazie dell’apprezzamento, comunque.

  9. Plissken ha detto:

    E’ vero, nel genere fantascientifico si può trovare davvero di tutto (perlomeno con riferimento al cinema).

    Io ho avuto la fortuna di poter vedere già all’epoca dei due soli canali RAI parecchi film anni ’50, come già ho espresso, ovviamente in rigoroso bianco e nero appunto. Il genere era monopolizzato dagli americani e ricordo ancora oggi la meraviglia che mi suscitò la vista di Gort, il gigantesco robot di “Ultimatum alla terra”, nonostante fossero passati più di vent’anni dalla sua realizzazione 🙂

    Poi gli inglesi mediante le serie TV degli Anderson soppiantarono il “made in usa” in my mind, con un lavoro davvero eccelso ancora oggi sotto molti punti di vista.

    Ci pensò un “bizzarro” signore barbuto e dalla “erre” moscia a ridestare il mio interesse verso il cinema di fantascienza anni ’50 mediante un programma di una tv privata nei primi anni ’80, trattasi dell’unico regista italiano che io conosca “veramente” dedito alla fantascienza, trattasi del mitico Luigi Cozzi.

    Vedere un film del Cozzi è un’esperienza davvero singolare, oserei dire “mistica”…

  10. Alberto Cassani ha detto:

    Cozzi è senz’altro un esperto della materia, ma non è che i suoi film siano poi ‘sti gran capolavori. Anzi…

  11. Plissken ha detto:

    He he he, si lo so, difatti il mio “mistico” equivale al tuo “vintage” nella recensione di “The ward”. Comunque vedere “Starcrash” o “Hercules” è un’esperienza davvero “unica”, non trovi? Credo siano gli unici film anni ’80 girati con effetti speciali anni ’50, (!) senza contare i soggetti decisamente bizzarri (perlomeno Hercules, in cui Ferrigno combatte contro macchine – robot in stop motion…).

    Comunque Cozzi (tranne qualche sporadico excursus nella shi-fi di altri registi come che so, Ippolito o Salvatores) è nel bene e nel male forse l’unica testimonianza di una certa fantascienza made in Italy.

    Ricordo che il Cozzi, mentre spiegava nel citato programma i trucchi del mago Ray, era sinceramente “trasportato” e dalle sue parole si poteva evincere una sincera affezione verso la fantascienza anni ’50, per cui per certi versi gli sono affezionato.

    Certo i suoi film… ahem… Però perlomeno ci ha provato… 😉

  12. Alberto Cassani ha detto:

    Esperienza unica perché non la si vuole ripetere… Tra l’altro “Hercules” non credo neanche di averlo visto tutto, quando passò in tv secoli fa.

  13. Plissken ha detto:

    Diamine, hai quindi perso tutta l’espressività del Ferrigno, che praticamente non muta d’accento qualunque sia la situazione in cui si trova. Certo c’è da dire che la sua componente istrionica è andata probabilmente esaurita sotto le sempre-verdi spoglie…

    Credo comunque, se ben ricordo, che “Starcrash” (già il nome è tutto un programma…) sia ancora peggio. 😀

    Vabbè… omaggio comunque il Cozzi per il coraggio e la perseveranza, chiudendo l’italica parentesi…

  14. Alberto Cassani ha detto:

    Tra l’altro Cozzi ha anche pubblicato alcuni interessanti libri sul cinema di fantascienza raccogliendo testi e interviste effettuate nel corso degli anni. Quello proprio su “La cosa da un altro mondo” non è trascendentale ma ha alcuni spunti validi (non ultimo il testo del racconto di Campbell, che all’epoca avevo potuto leggere solo in inglese).

  15. Plissken ha detto:

    Si, sapevo che aveva scritto qualcosa, ma in seguito alla tua informazione ho dato un’occhiata in Internet ed ho constatato che ne ha scritti davvero una marea, tra l’altro anche in tempi recentissimi. Non credevo fosse così prolifico come scrittore. Ho notato che le copertine riprendono una grafia piuttosto affine a quella usata nei fumetti/riviste “pulp” anni ’50… Oltre alla fantascienza spiccano libri su Argento, con il quale ha collaborato parecchio.

    Se non erro inoltre il Cozzi tiene dei corsi di “cinema” (non so cosa nello specifico…) in qualche facoltà.

    Non ho mai letto un libro di Cozzi, se dici che nel complesso non sono male magari ci faccio un pensierino… però dovrebbero fare delle edizioni più “economiche” per poterli prendere tutti 🙂

    Cassani: a quando un libro tuo? 😉

  16. Alberto Cassani ha detto:

    Non so se è giusto dire che ha scritto tanti libri e alcuni in tempi recenti, nel senso che quelli che ho visto (quello sulla Cosa è l’unico che ho comprato e letto) riprendono in realtà testi e interviste vecchie di decenni, con aggiunte di testi altrui. Non so quanto Cozzi abbia effettivamente scritto, di recente. Di certo ne ha pubblicati tanti.

    Di libri miei ne ho iniziati tanti ma non ne ho finito nessuno, ingoiato dalla mia smania di essere preciso in tutto e quindi bloccato dall’impossibilità di controllare anche la più piccola fonte. Quello a cui sto lavorando adesso, dopo più di un anno che non lo prendevo in mano, non riguarda il cinema e non è nemmeno escluso che riesca a finirlo…

  17. Plissken ha detto:

    Ah beh, non avendo mai letto nulla di Cozzi in effetti non so nemmeno io se i suoi libri siano “solo” una raccolta di altrui scritti o contengano molto di suo pugno. Comunque è in effetti più corretto dire che ne ha “pubblicati” molti, più che “scritto”.

    Per il tuo libro… in bocca al lupo. Dai che una volta fatto il primo… 🙂

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