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Soundtrack: "Drive" di Cliff Martinez

24 dicembre 2012 Soundtrack 1 Commento
Roberto Pugliese, 14 Dicembre 2012: * * * *
In collaborazione con Colonne Sonore

Dopo essere stato presentato al Festival di Cannes con una colonna sonora temporanea, il noir di Refn è uscito nelle sale di tutto il mondo accompagnato da un sapiente mix di musiche di repertorio e composizioni originali di Cliff Martinez, nel segno della musica elettronica…


Il termine “colonna sonora”, storicamente e impropriamente utilizzato per definire la presenza musicale in un film, trova viceversa una collocazione raramente così piena e pertinente come nel caso del cupissimo, ossessivo e inesorabile noir di Nicolas Winding Refn. Si può a tutti gli effetti parlare di un film che “respira”, palpita e vive nel proprio sound, costituito in parti pressoché eguali da partitura originale, suoni diegetici e meccanici, canzoni preesistenti che tuttavia nel rispecchiare (specialmente nei testi) gli stati d’animo dei protagonisti trascorrono spesso dal livello “interno” al livello semantico “esterno”. Il tutto fuso in un contesto minaccioso e incombente, e in quella che Valerio Sbravatti, nella sua acuta e particolareggiata analisi su Segnocinema 178, ha definito «una cura particolare del campo sonoro, profondamente integrato in quello visivo».
Un campo nel quale il lavoro di Cliff Martinez – compositore di fiducia di Steven Soderbergh ma anche dei recenti Arbitrage – Sesso potere e denaro di Nicholas Jarecki e La regola del silenzio di e con Robert Redford – si inserisce con un prezioso e meticoloso compito di coesione e di assimilazione di materiali, una sorta di – citiamo ancora Sbravatti – «legame che scioglie le inquadrature in un flusso». Appare abbastanza evidente che il segreto di questa operazione linguistica risiede principalmente nella continuità che si avverte, proprio in questo flusso, fra le canzoni di repertorio – accomunate, tranne un’eccezione su cui ci soffermeremo, dalla matrice e firma elettronica di gruppi e solisti fortemente hi-tech – e la partitura “synth” del 58enne musicista newyorchese. Una continuità palpabile, sintattica, timbrica, di atmosfere: che trova la propria ragion d’essere all’interno della valenza psicologica con cui sono utilizzati i brani preesistenti, tutti per l’appunto affacciati in varie modalità sul fronte techno e spesso caratterizzati (si veda “A real hero” del francese David Grellier, alias College, insieme al duo canadese Electric Youth) da una netta connessione del testo con la situazione associata. Importante appare anche l’utilizzo scenografico-semantico di alcuni hit, come “Under you spell” di un altro gruppo canadese, i Desire, la cui funzione trascorre rapidamente da musica di scena a musica di commento psicologico. Né va sottovalutata l’acuta potenza ipertestuale di alcuni momenti nei quali voci, suoni, rumori meccanici, effetti e musica in senso lato si mescolano in un magma inestricabile ma altamente produttore di senso, come nelle pulsazioni “motoristiche”, ossessive e allarmanti di “Tick of the clock” della rockband elettronica statunitense Chromatics; oppure diventano una sorta di “ballad” ancestrale, evocativa e misteriosamente complice, come nei titoli di testa di “Nightcall” di Kavinsky (ovvero Vincent Belorgey, electro-artista francese di punta) in tandem con la cantante nippo-germano-brasiliana Lovefoxxx (al secolo Luísa Hanae Matsushita).

Come si vede, un bel “melting-pop” anche geoculturale di sapientissima calibratura polisemica e di grande magnetismo uditivo: nel quale si inserisce, con un fortissimo effetto a contrasto che lo pone in travolgente rilievo emotivo, l’unico brano “tradizionale”, anzi scopertamente e struggentemente rétro, ossia “Oh my love” di Riz Ortolani, cantato con un trasporto vibrante e viscerale dalla moglie Katyna Ranieri, con l’orchestra diretta dal marito. Si tratta del brano principale che suggellava il soundtrack di Addio zio Tom (1971) , quinto capitolo della discussa (e discutibile) serie di docu-fiction (o mockumentary che dir si voglia) antropologiche e rozzamente sensazionalistiche firmate da Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi (inizialmente insieme a Paolo Cavara) e cominciate nove anni prima con Mondo cane: il cui Leitmotiv “More” – song di ariosa e liricissima intensità riproposta in un numero praticamente infinito di cover – scritto insieme a Nino Uliviero valse al musicista pesarese fama planetaria. La versione originale del pezzo, marchiata dall’inconfondibile orchestrazione di Ortolani, con le immense campiture degli arpeggi di archi a sostenere la dizione scandita e la vocalità maestosa della Ranieri, è messa in scontro frontale con la sequenza in cui Driver affronta il “cattivo” Nino, cosicché il suo lirismo quasi intossicante, di matrice squisitamente operistica (come molte pagine del compositore 81enne), finisce con lo svolgere una funzione rovesciata di straordinario detonatore psicologico e di affiliazione romantica e redentrice nei confronti del protagonista. Una lezione di stile e intelligenza, quella che ci proviene qui da Refn, di non poco conto specie ove si considerino certi pacchiani, decorativi e inutilmente ammiccanti patchwork, assemblati con la compulsività pseudofilologica di un infantilismo cinefilo, cui spesso l’opera dello stesso Ortolani (con altri) è stata piegata: dobbiamo proprio citare Tarantino…?

In questo complesso e ricchissimo contesto il “technoscore” di Martinez assolve un compito fondamentale di unitarietà e coerenza stilistica, ben lungi da una tappezzeria coesiva o di comodo. Il climax che esce dalle sue pagine è perturbante, insinuante, ipnotico: alcuni passaggi evocano orizzonti acustici quasi fantascientifici (“Bride of Deluxe”) forse memori di Solaris, altri (“Hammer”) si dipanano in cattedrali di suono bachiane, altri ancora (“Rubber head”) avviluppano l’ascoltatore in una specie di serialità pulsante e metallica, dove davvero rumore puro ed esperienza di “musique concrète” sembrano ritrovarsi, altri infine rasentano l’effetto sonoro assoluto, deprivato di qualunque riconoscibilità significante (“On the beach”). Appare del tutto evidente che a Martinez non interessano minimamente alcuna mimesi orchestrale né – anzi, se possibile ancor meno – qualsiasi cenno di tematismo. La sua musica non riveste funzioni emotive o emozionali, a meno che esse non debbano essere ricercate nell’emissione, nel fiotto continuo di un “respiro sonoro” che s’intreccia non solo con le immagini ma con il complessivo, circostante spazio acustico del film. Qui vanno a sfociare anche i non casuali, saltuari rimandi pop della partitura (Martinez, ricordiamolo, nasce come batterista), garantiti surrettiziamente dalla presenza solistica del chitarrista Mac Quayle, del sitarista Gregory Tripi (impegnato anche al saz, sorta di liuto di origini saracene) e del compositore stesso al “crystal baschet”, particolare strumento il cui suono proviene da cilindri di vetro oscillanti.

Come si vede (e si sente), dunque, uno score che è frutto di una delle più accurate e innovative ricerche e combinazioni sul suono quale protagonista e portatore di significato del cinema contemporaneo: grazie anche a una rara fusione (e non confusione) fra musica preesistente e musica originale, volta ad abbatterne le reciproche barriere non con un’informe contaminazione o una disamina algidamente teorica bensì attraverso l’insostituibile arma dell’intuito linguistico e dell’applicazione pratica sul campo.


Titolo: Drive (Id.)

Compositore: Cliff Martinez, Aa.Vv.

Etichetta: Lakeshore Records, 2011

Numero dei brani: 19 (14 di commento + 5 canzoni)

Durata: 70′ 19”


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Attualmente c'è 1 commento a questo articolo:

  1. Plissken ha detto:

    Era da molto tempo che non vedevo un film in cui la colonna sonora svolge un ruolo così importante, attivo, e la disamina inerente l’ “impiego”dei vari “pezzi” rende ancora più interessante il tutto.

    Bellissimo articolo, complimenti.

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