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Soundtrack: "Interstellar" di Hans Zimmer

24 novembre 2014 Soundtrack 1 Commento
Interstellar

Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore* * * * *

La colonna sonora di Interstellar delinea una decisa svolta nella poetica del tedesco Hans Zimmer, anche all’interno della sua collaborazione con Christopher Nolan. Zimmer abbandona infatti ogni marzialità e ogni approccio aggressivo e trionfalistico, passando a un’atmosfera mistica e soffusa…


La massiccia operazione di marketing che, come si conviene a ogni evento cinematografico, ruota intorno a Interstellar non poteva non coinvolgere anche l’aspetto musicale. Ed ecco allora spiegato perché la soundtrack del film di Christopher Nolan è stata licenziata dall’etichetta della Warner in ben tre versioni: una di base, una seconda esclusivamente in digitale e una terza “special edition” in confezione Deluxe Digipak comprensiva di raggio stellare luminoso (!) con doppio CD inclusivo di partitura originale, source music e una mezz0ora di bonus track.
Ma, al di là dei supporti scelti, la stessa genesi e fisionomia di questo score sono istruttive. La concezione della partitura ha richiesto a Zimmer due anni di lavoro, ed è stata creata in parallelo con la stesura della sceneggiatura e l’effettuazione delle riprese (prassi sempre più rara, al giorno d’oggi). L’organico prevede, oltre alla vasta componente elettronica, 34 strumenti ad arco, 24 a fiato e quattro pianoforti, più un coro misto di 60 voci la cui espirazione, riverberata e distanziata dai microfoni, evoca il passaggio del vento fra le dune planetarie. A questi si aggiunge, fondamentale, un organo da chiesa Harrison & Harrison a quattro tastiere che il compositore ha reperito nella Temple Church di Londra. Il tutto affidato alla doppia direzione di Gavin Greenaway e Richard Harvey.
L’insieme delinea una decisa svolta nella poetica del musicista, anche all’interno della sua collaborazione con Nolan, che sembra aver preso stabilmente il posto di quella con un altro inglese, David Julyan, sviluppatasi nel decennio passato. Zimmer abbandona qui ogni marzialità, ogni approccio aggressivamente tonitruante e trionfalistico; scompaiono le sonorità schiaccianti, infuocate di Inception così come le tonalità dark, cupissime de Il cavaliere oscuro. Viceversa, e tranne alcuni particolari momenti in cui l’orizzonte sonoro si spalanca in vertiginosi abissi, l’atmosfera è decisamente mistica, soffusa, linearmente limpida e pacata. Non solo la presenza decisiva dell’organo ma tutto l’impianto rimanda a un’impronta nettamente religiosa, spiritualista: suoni di altri mondi, di un’altra dimensione, che sembrano provenire da inesplorate zone dell’inconscio. Nulla a che vedere, tuttavia, con le gelide, immacolate sperimentazioni elettroniche di Artemyev per il Solaris tarkovskjiano né con il modernismo laboratoriale di Alex North nella sua partitura (inutilizzata) per il 2001 kubrickiano, poi adornato dal celebre patchwork classico straussian-ligetiano. Zimmer punta a un’evocazione profonda delle emozioni, a una traslazione in suoni dello sbigottimento che l’uomo prova dinanzi all’immensità dello spazio e alla sconcertante relatività del tempo, che sovverte le nostre certezze e i nostri affetti più cari. Un lavoro sulla “psiche musicale” che porta il maestro di Francoforte su vette espressive raramente toccate in precedenza.

“Dreaming of the crash” serve a introdurre, su un misterioso fruscio, la figurazione centrale della partitura: un motivo si bemolle-sol/la-fa che diviene l’enigmatica chiave di volta dell’intero edificio musicale, prima che in un poderoso crescendo irrompa la presenza organistica su un rombante, profondo pedale di basso elettronico; e tuttavia “Cornfield chase” costituisce subito un alleggerimento impalpabile, con svolazzi di pianoforte e figurazioni rapide dell’organo dalle geometrie bachiane. “Dust” è però il primo autentico capolavoro della partitura: su un mormorio fluttuante, impressionistico di archi ed elettronica, i violini cantano una melodia cromatica dalle reminiscenze apertamente wagneriane e tristaniane, apparentemente senza fine, sospesa letteralmente nel vuoto: quasi un commovente, irresistibile canto di sirene per un’umanità alla deriva. L’arco dinamico si spinge raramente oltre il piano, più spesso gravitando intorno al pianissimo: su arpeggi inafferrabili e sussurranti il pianoforte accenna dei disegni ripetuti e regolari (“Day one”) mentre organo e archi si gonfiano in una progressione avviluppante di accordi. Su un pedale basso in do che sfocia ben presto in un luminoso do maggiore, da lontananze incommensurabili si sente riproporre in “Stay” la figurazione iniziale di quattro note che scivola poi in un toccante, pucciniano fa minore; la riproposizione dell’intero periodo in una versione molto più massiccia e potente, con il cromatismo degli archi, il sostegno degli ottoni e dell’organo e lo sfavillìo abbagliante degli effetti synth precede, nel successivo “Message from home”, lo smarrito, titubante soliloquio del pianoforte a riprendere con incertezza il tema principale e, in “The wormhole”, un lento e strascicato ritmo di marcia subito sovrastato dall’organo. Anche “Mountains” propone un ritmo regolare, scandito, che finisce con il riversarsi nell’abbraccio enorme dello strumento a canne; nuovamente il piano distilla emulsioni tematiche appena galleggianti su note acute degli archi in “Afraid of time”, mentre assai inquietante è il percorso di “A place among the stars”, col disegno dei bassi memore dell'”Uccello di fuoco” stravinskyano. Il mi ribattuto del pianoforte di “Running out” sorregge da solo un secondo pianoforte che accenna il tema portante, ma si è colti di nuovo da brividi in “I’m going home”, quando su quel fruscio tremolante degli archi, quasi uno sciabordìo, violini e synth rioffrono l’idea melodica di “Dust”, in un climax sonoro che ricorda mondi apparentemente opposti, dal “Mormorio della foresta” wagneriano a certi inesprimibili colori timbrici debussyani.
Gli ultimi quattro brani occupano da soli quasi metà dell’intero score, e si collocano come piccole suites autonome, che contengono al loro interno anche un’importante partecipazione di effetti sonori. Il più lungo, “Coward”, inizia nel quasi-silenzio nutrendo lentamente dentro di sé un ritmo pulsante che si alza su dissonanze immobili, fino a deflagrare in una teoria di virtuosistiche figurazioni dell’organo e dei pianoforti; “Detach” sembra sorgere anch’esso dal nulla, in una nebbia di sound effect avvolgente e densa, ma è solo la preparazione a una nuova, imperiosa e vigorosa riproposizione dell’idea di quattro note, resa incandescente dall’entrata degli ottoni e da una coda armonicamente smisurata e audacissima, che termina su violini primi e secondi reminiscenti del Preludio del primo atto del “Lohengrin”. Il magico, liquescente “S.T.A.Y.” si basa su incessanti diadi dell’organo su sottofondo elettronico appena accennato, sino a spegnersi impercettibilmente fra bagliori lontanissimi di archi e legni; uno schema non molto dissimile dal conclusivo “Where we’re going”, lieve come un sospiro, con l’organo che gravitando in un registro dinamico quasi inudibile produce la sensazione di un suono carezzevolmente alieno, al tempo stesso profondamente intimo e imperscrutabilmente estraneo.

Raramente una partitura ha saputo dar forma sonora come questa all’inesprimibile, e allo stupore, fanciullesco e atterrito, che coglie l’essere umano dinanzi alla non-finitezza di tempo e spazio; e ancor più raramente ciò è avvenuto con un’economia di soluzioni stilistiche e una omogeneità di linguaggio così coerenti e rigorose. Ma questo è appannaggio dei grandi artisti, come sa esserlo – nelle occasioni importanti e sotto gli stimoli giusti – Hans Zimmer.


La copertina del CD di InterstellarTitolo: Interstellar (Id.)

Compositore: Hans Zimmer

Etichetta: WaterTower Music, 2014

Numero dei brani: 16

Durata: 71′ 38”


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Attualmente c'è 1 commento a questo articolo:

  1. Anonimo ha detto:

    Bravissimo! Capolavoro. 🙂

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