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Soundtrack: "L'alba del pianeta delle scimmie" di Patrick Doyle

3 ottobre 2011 Soundtrack 0 Commenti
L'alba del pianeta delle scimmie

Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore* *

Esempio principe di compositore cinematografico che dalla natia Europa si trasferisce a Hollywood adattandosi agli stili musicali richiesti dai produttori della California del Sud, lo scozzese Patrick Doyle compone qui una partitura decisamente inferiore a quella di Thor…


Quello della americanizzazione di alcuni illustri compositori cinematografici europei sta diventando un problema sensibile e non più liquidabile come serie di episodi accidentali. E’ un modello culturale e industriale che si sta esportando e dilatando, influenzando i musicisti in una vana corsa imitativa nei confronti dei modelli principali, associati automaticamente ai principali blockbuster di riferimento: Hans Zimmer, Danny Elfman, James Newton Howard. Il francese Alexandre Desplat e lo scozzese Patrick Doyle (che hanno non a caso in comune anche capitoli della saga di Harry Potter) sono forse i due esempi più eclatanti di questa mutazione. La differenza consiste però nella maggiore resistenza di Desplat all’omologazione, per cui a fronte di una committenza colossalistica e puramente commerciale, egli riesce sempre a mantenere viva e pulsante, nel nucleo, il proprio tratto stilistico distintivo, asciutto, paraminimalista e iterativo. Doyle era – sottolineiamo “era” – un compositore fluente e felicissimo, che nel sodalizio con Kenneth Branagh aveva ritrovato una vena aurea della musica british in direzione decisamente classica, nella tradizione di Elgar, Vaughan-Williams e Walton. Sue caratteristiche precipue la trasparenza un po’ “vintage” dell’orchestrazione, la fertile facilità dell’eloquio melodico, la predilezione per architetture sinfoniche organizzate, la variegata tavolozza dei timbri.

Alle prese con il tardivo prequel della saga fantascientifica che tra gli anni 60 e 70 si avvalse di compositori come Jerry Goldsmith e Leonard Rosenman (senza contare lo score elfmaniano per il remake di Tim Burton), tutte queste caratteristiche sembrano evaporare, o meglio ridursi a meri, sporadici segnali di uno stile personale purtroppo conculcato in un lavoro di disarmante, irriconoscibile genericità.
La partitura è dominata da due elementi: una costante evocazione di atmosfere tribali, africaneggianti, con l’uso di strumenti caratteristici e di effetti onomatopeici vagamente volti a riprodurre il verso dei primati, e un incalzare ritmico sincopato, molto zimmeriano, sostenuto da percussioni tambureggianti, scatenate e da accentuati contrasti dinamici (“Bright eyes escapes”), dove emerge appena qualche figurazione intrusiva degli archi. Più interessante, costruito con un disegno “staccato” sul quale si alza la melodia dei celli, “Lofty swing”, che tuttavia ripropone (come pure “Stealing the 112”) lo schema un po’ fisso dei cues: partenza lenta e sommessa percussiva, denso controcanto degli archi, improvvise saltuarie deflagrazioni rinforzate con l’elettronica in modo un po’ greve, coda pacata e misteriosa. Dilaga un descrittivismo impressionistico piuttosto banale (“Muir Woods”) che solo a tratti lascia trapelare le raffinatezze della scrittura doyliana (“Off you go”, con la progressione degli archi), ma più spesso si arrende a un quieto manierismo naturalistico o a un lirismo (“Who am I?”) nei quali il compositore fatica però a ritrovare la propria vena più felice. Urgono troppo alcuni stereotipi come l’appello saettante e vagamente “etnico” ai flauti di Pan (“Caesar protects Charles”) o i crescendi alla Giacchino (“Dodge choses Caesar”), in quella che a volte sembra una ricapitolazione consapevole ma non abbastanza distaccata di modelli preesistenti. Brani freddamente aggressivi, con percussione martellante, corni e tromboni all’attacco, come “Rocket attacks Caesar” o “Buck is released”, o ripetitivi come “Visiting time” potrebbero veramente provenire da una qualsiasi “library”, non fosse che per un marchio nelle modulazioni armoniche dal quale di tanto in tanto è dato riconoscere l’imprinting dell’autore.

Spesso la sensazione è che Doyle si tenga volutamente dentro i confini di uno “sfondo” sonoro a tema (“Charles slips away”), senza eccessive pretese leitmotiviche (tranne un triste, rapido motivo discendente, ma coperto dal frastuono generale) né soverchi desideri di lasciare traccia. A difettare è un ingrediente decisivo nella fisionomia artistica di questo compositore: la varietà di toni pur ottenuta all’interno di una struttura prefissata (si pensi a L’altro delitto di Branagh o al sublime Carlito’s Way di De Palma); al suo posto, un trionfalistico gonfiare di muscoli sonori (tromboni e raddoppio di archi su percussione a raffica in “Caesar says no” in parte riscattato da un drammaticissimo inciso dei corni), temi fondati su un minimalismo di scrittura inversamente proporzionale al dispiego di mezzi, come in “Zoo breakout” e “Golden Gate Bridge” (suona l’impeccabile Hollywood Studio Symphony), espedienti un po’ logori (i glissandi e i tremoli degli archi in “The apes attack”). Si respira, appena, con il mesto tematismo degli archi in “Caesar and Buck”, dove affiora brevemente il vero Doyle, quello pensoso e intenso, che suddivide le sezioni orchestrali anche in chiave psicologica (l’interiorizzazione del canto dei celli), e l’adagio ancor più meditato di “Caesar’s home”, pagina classica e severa che da sola non riscatta la partitura ma testimonia la favilla perdurante di un talento resistente.

Per il resto è un passo indietro anche rispetto a Thor, che assumeva sulla propria struttura rumorosamente fantasy anche l’autoironia dell’amico Kenneth. Sarà bene che questi maestri europei ci pensino un po’ di più prima di cedere così facilmente alla (comprensibile, visti i tempi di crisi) tentazione del Dio Dollaro, se non vogliono rischiare di perdere il credito e la stima acquisita in tanti anni di consapevole itinerario, attraverso autori e generi diversi, dentro l’Ottava Arte.


La copertina del CDTitolo: L’alba del pianeta delle scimmie (Rise of the Planet of the Apes)

Compositore: Patrick Doyle

Etichetta: Varèse Sarabande, 2011

Numero dei brani: 24
Durata: 61′ 17”


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