Soundtrack: "Lo Hobbit - La desolazione di Smaug" di Howard Shore
Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore – * * * * *
La costruzione del ciclo tolkeniano da parte di Peter Jackson, una volta ultimata, somiglierà molto all’analofa e colossale esalogia lucasiana di Guerre Stellari. Howard Shore non è John Williams, ma il suo approccio al commento musicale de Lo Hobbit non poteva non avere delle cose in comune…
La costruzione della monumentale architettura del ciclo tolkieniano ad opera di Peter Jackson si avvia alla conclusione nella sua forma di esalogia (avverrà l’anno prossimo con Lo Hobbit – Racconto di un ritorno), la quale una volta ultimata, con la sua struttura di un prequel tripartito realizzato dopo i tre capitoli cronologicamente successivi, somiglierà sempre più decisamente all’analoga, colossale esalogia lucasiana di Star Wars. Un parallelismo che, come si è già avuto occasione di notare, riguarda da vicino anche la parte musicale e la sua complessa genesi. Nulla avvicina fra loro, per stile e formazione, le figure di John Williams e Howard Shore ma non v’è dubbio che i problemi dinanzi ai quali si è trovato il compositore canadese non sono troppo dissimili, per difficoltà e dimensioni, da quelli che si è trovato ad affrontare lungo quasi un trentennio il suo collega newyorkese.
Il primo e più importante di tutti riguarda la gestione e il trattamento della ricchissima tavolozza di Leitmotiv contenuta nella partitura dell’intero ciclo, intendendo come tale evidentemente quello unitariamente costituito dal Signore degli Anelli e dallo Hobbit. Come già verificatosi per Star Wars, l’anteposizione cronologica degli eventi raccontati nei prequel – realizzati successivamente ai tre capitoli preesistenti – obbliga i compositori a un approccio che definiremo “wagneriano” nell’uso dei temi, soprattutto dal punto di visto evocativo e psicologico: restano esemplari e folgoranti, in tal senso le sommesse esposizioni del tema di Leia e del tema di Luke – composti da Williams quasi trent’anni prima – nell’ultima sequenza di La vendetta dei Sith, subito dopo la nascita dei due, in una saldatura semantica circolarmente perfetta. Shore, che sulla saga tolkieniana sta lavorando da ormai tredici anni, appare non meno consapevole dell’arduo compito, come si evince immediatamente dall’economia complessiva che sovrintende al materiale leitmotivico. Per rendersene conto, consigliamo di intraprendere l’ascolto con la indispensabile guida del commento, arredato da innumerevoli esempi musicali di pugno del compositore, che Doug Adams ha elaborato per il sontuoso booklet di accompagnamento alla “special edition” Decca/WaterTower.
Un primo elemento vincolante riguarda la quasi assoluta discontinuità di questa partitura sia dalla Trilogia dell’Anello che dal precedente Un viaggio inaspettato: pochissimi, infatti, i temi mantenuti, e tra questi in primis il Tema dell’Anello, il tema di Bree e il tema dello Shire (che appare subito accennato in “The Quest for Erebor”). Compare invece un’ampia serie di elementi leitmotivici nuovi, dal tema di Tauriel a quello di Laketown a quelli di Beorn e Thorin, per non citare che i principali; mentre altri Leitmotiv, come quelli del drago Smaug o di Erebor, sono manipolati e sottoposti a sviluppi e variazioni fondamentali. Ciò comporta una metamorfosi complessiva della partitura rispetto ai capitoli precedenti, ma anche un approfondimento psicologico dei singoli fattori costitutivi, perché molte delle nuove idee di Shore contengono frammenti memorizzati da altri temi, o ne rappresentano delle diramazioni, come nel caso del tema dei Nani, costruito sull’alternanza la minore-sol maggiore del tema di Thorin.
In realtà tutto l’edificio musicale di Shore appare in questa occasione rivolto prevalentemente e prepotentemente alla descrizione e alla sottolineatura dell’azione pura; compaiono in tal senso espedienti non frequenti nella poetica del maestro, come i glissandi liberi degli archi sostenuti da un agghiacciante coro muto maschile in “Spell of Concealment”, vera musica “di paura”. Tutto il colore dello score vira del resto con decisione verso tinte cupe, “dark”, con rare oasi nel registro acuto (il raggio di luce che filtra nell’apertura del lunghissimo e convulso “Flies and spiders”, con una citazione dal “Lago dei cigni” ciakovskiano) e il predominio di bassi, celli, ottoni gravi e percussione, con vasto uso di dissonanze trafiggenti e di una ritmica che si direbbe quasi goldsmithiana. Esemplare in tal senso l’episodio della foresta di Mirkwood, dove campane tibetane e uno spettrale tema del “waterphone” (sorta di strumento percussivo ad acqua) concorrono a un climax intossicato e contaminante. In questo senso l’orchestrazione di James Sizemore e Conrad Pope (il secondo anche preciso e onniveggente direttore sul podio della New Zealand Symphony Orchestra e dei London Voices con il Tiffin’s Boys Choir) si rivela preziosa nell’adozione di conflitti timbrici estremi e di un titanismo strumentale mai fine a se stesso: anzi, lo scontro al calor bianco fra masse sonore smisurate e l’alternanza con parentesi cameristiche, affidate soprattutto all’oboe e più in generale ai legni solisti, serve a far risaltare meglio il contrasto con le numerose parti liriche della partitura. E queste ultime a loro volta si strutturano organicamente nell’insieme, dilatando i temi e modificandone continuamente l’assetto drammaturgico: come avviene nel complesso “The Woodland Realm”, con lo struggente intervento finale dell’oboe che riprende poi l’inizio del siderale, sognante “Feast of starlight”, brano chiave che contiene – affidato a una flautante voce bianca – l’etereo tema della guerriera Tauriel ma anche un’enunciazione fondamentale del Tema dell’Anello. Quest’ultimo, va detto, ricorre nelle sue due note iniziali numerosissime volte, quasi a suggerirne un impalpabile statuto di semi-esistenza, una forma indistinta e appena accennata di evocazione.
Impressionante poi l’energia che Shore pone nelle numerose parti di “battle music” come il già citato, rovente, “Flies and spiders”, che contiene una figurazione di quattro note discendenti semplicemente terrificante; così come in “The Forest River”, una sorta di poema sinfonico furibondo e incalzante che non dà respiro nel riprendere e rendere incandescenti alcuni dei principali motivi conduttori dello score, in particolare lo squillante tema di Tauriel. Horror music di prima scelta è poi quella che agita “The nature of Evil”, dove tuttavia – ancora una volta – sorprendono la complessità e insieme la naturalezza con la quale vengono inglobati, agitati e restituiti alcuni dei temi principali. Uno di questi, quello di Laketown, sorta di ballad medioeval-popolare appare in chiusura di “Protector of the Common Folk” per riapparire più estesamente in “Thrice Welcome” sotto forma di solenne, quasi pomposa marcia per archi e percussione e, più sommessamente, in “Durin’s Folk”.
Straordinaria poi la Pavana per clavicordo e altri strumenti d’epoca con cui Shore descrive e accompagna (“Bard, a Man of Laketown”) la vanità autoreferenziale del tronfio governatore di Laketown in un continuo, mellifluo alternarsi di modulazioni (fa minore, la bemolle minore, do minore) a descriverne il fatuo opportunismo. Ma dopo alcune pagine di vibrante temperatura d’azione (“In the shadow of the Mountain”, “On the doorstep”) ecco che “The courage of Hobbits”, una volta riproposto il tema dello Shire, ci pone anche musicalmente al cospetto del drago Smaug, come ci era già stato prefigurato in Un viaggio inaspettato. Qui la partitura si trasforma ancora una volta, assumendo colori timbrici inconsueti: il flauto cinese “dizi”, il giapponese “skakuhachi”, tamburi e arpe, cimbali e gong, strumenti metallofoni e reminiscenze di musica dell’Estremo Oriente confluiscono a erigere un’impenetrabile muraglia di suono mobile, costituita armonicamente da una serie di accordi di ottoni gravi e archi divisi, alternati tra maggiore e minore, a creare con due linee intersecate una sorta di moto serpentino e sinuoso che si adatta meravigliosamente alle sinistre ma anche garrule e vanitose caratteristiche del drago. E se “Kingsfoil” fa risuonare estaticamente il tema di Tauriel, e “The Hunters” chiama a raccolta gli archi in uno sfrenato galop, “A liar and a thief” concentra tromboni e tuba in perentorie apparizioni della Bestia, il cui trionfo si celebra tuttavia nei sei minuti e mezzo della extended version di “Smaug”: impossibile non andare con il pensiero al wagneriano “Siegfried” e al personaggio del drago Fafner, introdotto dal disegno pesante e minaccioso di bassi e tube. Qui però Shore fa largo uso di trafitture dissonanti, tremoli sul ponticello, flautandi dei violini, effetti della percussione, continuando a sfruttare l’andatura speculare delle due linee melodiche in contrappunto strettissimo. Il fiammeggiante, eroico “My armor is iron” precede la ballata “I see fire” del cantautore di Halifax Ed Sheeran nonché il congedo di “Beyond the forest”: pagina, quest’ultima aperta dal celestiale coro di voci bianche e femminile in una ricapitolazione pacificata di elementi che sembra prevalentemente affidarsi alla luminosa musica del regno degli Elfi.
Dunque uno sforzo monumentale e di straordinaria architettura formale, quello compiuto da Shore e che vedrà alla fine dell’anno appena iniziato la propria conclusione con Racconto di un ritorno, tanto più complesso e profondo in quanto non meramente riassuntivo di materiali preesistenti ma volto a far crescere, mutare e interagire continuamente temi e situazioni seguendo l’evolversi intricato e non lineare dei personaggi tolkieniani. Un’operazione che, come scrive il regista Peter Jackson, rappresenta il “diario musicale” di una straordinaria, irripetibile avventura cinematografica, ma anche un colossale patrimonio di insegnamento e di idee per generazioni di musicisti a venire.
Titolo: Lo Hobbit – La desolazione di Smaug (The Hobbit: the Desolation of Smaug)
Compositore: Howard Shore
Etichetta: WaterTower Music, 2013
Numero dei brani: 14 + 15
Durata: 60′ + 69′
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