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Soundtrack: Lo Stato dell'Unione

2 gennaio 2013 Articoli, Soundtrack 0 Commenti
Chiave di violino

Dimitri Riccio, in collaborazione con Colonne Sonore

Alla luce della splendida sinfonia di John Williams per il “Lincoln” di Steven Spielberg che abbiamo analizzato settimana scorsa, possiamo provare a fare lo “Stato dell’Unione” della musica applicata al cinema per l’anno appena trascorso. Stato tutt’altro che incoraggiante…


Si può alla luce dell’ultima e, diciamolo, strepitosa partitura williamsiana tentare un – realmente ficcante in questa occasione – discorso sullo Stato dell’Unione concernente il film-scoring? Proviamo a tracciare un’analisi impietosa e realistica del quadro della musica statunitense applicata al cinema nell’anno 2012.

Quando si pensa al panorama cine-musicale U.S.A. viene in mente quella terribile, magnifica scena di Una Vita Difficile di Dino Risi, quando Alberto Sordi, ubriaco, nell’alba livida di una Viareggio indifferente a tutto e tutti, si piazza in mezzo alla strada trafficata e urla alle auto di passaggio «Andate via! Qui non c’è niente da vedere!». Ecco, appunto: qui non c’è niente, o quasi, da ascoltare! Perché la musica per film hollywoodiana è oramai ridotta a un fastidioso rumore di fondo. La coattizzazione, in senso squisitamente borgataro, dell’arte tutta nordamericana della musica scritta per il grande schermo è evidentemente un fatto irreversibile e compiuto: attraverso il principale colpevole di quello che è un vero e proprio disastro culturale ancora prima che artistico – Hans Zimmer – la musica per film made in USA è diventata la peggior caricatura immaginabile di ciò che è stata nei suoi giorni gloriosi.

Come si può spiegare altrimenti il fandom spropositato di stampo calcistico che questo genere, da sempre di nicchia, oggigiorno può vantare se non proprio attraverso il consapevole atto di depauperamento, di svilimento della tecnica del commento delle immagini che Zimmer e tutti i post e neo-zimmeriani hanno colpevolmente imposto, anche se solamente per stare alle regole del gioco (quanto mancano le coscienze alla Bernard Herrmann in un panorama come quello odierno!)?
Oggi, infatti, lo sforzo intellettuale che una “composizione” cinematografica media richiede al fruitore è prossima allo zero: tutto deve solo essere “cool”, fico, deve caricare, deve cioè essere immediato, “de panza”, captato solo dalle orecchie, giammai dal cerebro, così da potersi consumare pavlovianamente subito e da potere immediatamente essere commentato su Facebook e sui mille altri web-disastri con gli altri compagni di caverna, per darsi una facile pacca sulla spalla uno con l’altro, ma soprattutto per attaccare subito delle polemiche neandertaliane col nemico della curva avversa che non gode dello stesso pezzo, che non “sente” la carica, senza mai genuini atti di critica o altri gesti prettamente intellettuali, ma solo in virtù di partigianerie da stadio e, ovviamente, dell’unico vero e assolutamente indiscutibile dogma dei giorni nostri: la propria sacrosanta opinione (i fatti sono oramai scomparsi completamente da tutto lo scibile umano e oramai stanno diventando questione di punti di vista anche la pioggia o una nevicata…).
A tutto ciò bisogna aggiungere il cinismo bieco, unito alla spaventosa e presuntuosa ignoranza della maggior parte dei produttori e autori statunitensi, anche se questa non può essere considerata una totale novità (in una recente intervista il buon John Scott confessa di evitare lavori per il cinema da qualche anno proprio perché trova impossibile comporre avendo il fiato sul collo di sette-otto persone che per di più pensano di sapere tutto di musica per film…), che come sempre cercano di dare al popolo bue quello che il popolo bue chiede a gran voce. Ecco quindi che per uno Scott o un Broughton che (purtroppo) si ritirano, ci sono i Doyle o gli Howard che si zimmerizzano a comando, o i cavalli di troia dello zimmerismo laico (John Powell??), i più temibili, quelli che riescono con disinvoltura a far passare la solita sbobba per gourmanderie degne di Ducasse.

Decisamente non bastano le generose ma deficitarie forze di un Giacchino che ci sembra avere ancora molte lacune da colmare (altrimenti il rischio è quello di diventare un altro Alan Silvestri: un bravissimo uomo, compositivamente innocuo e miracolato dalla dipartita dei grandi) prima di potere assurgere al ruolo che purtroppo già gli è stato assegnato, per poter vedere il mezzo bicchiere pieno anziché vuoto. C’è sempre il bravo e preciso Shore (la sua Hugo è una partitura clamorosa), anche se certe preoccupanti fissità e troppe compiaciute e ridondanti formule al limite dell’auto-parodia non convincono più di tanto nel recentissimo Lo Hobbit e onestamente aggiungono ben poco alla sua probabilmente troppo celebrata trilogia dell’Anello: d’altronde dover musicare una serie di film vuol dire schiantarsi come kamikaze contro gli inarrivabili sequel williamsiani, piantati lì come colonne erculee al centro della Storia della Musica Applicata. Come mettersi serenamente a comporre una sinfonia dopo la Nona: una partita persa (in)consapevolmente in partenza.
Certamente ci sono le mosche bianche come il sempre interessante Elfman o il dotatissimo Thomas Newman, i notevoli fratelli Danna e il bravo Mark McKenzie, l’inossidabile Chris Young (disinvolto ma sincero uomo per tutte le stagioni), mentre siamo ancora in attesa che l’eterna promessa oriunda Desplat ci consegni finalmente un vero capolavoro: Rise Of The Guardians infatti è solamente un minuscolo divertissement (cioè il solito strasentito e piuccheperfetto pastiche williamsiano che qualunque Debney avrebbe potuto scrivere) che non smuove di un millimetro la sospensione di giudizio su questo, a oggi, buon mestierante. Infatti se le forze in campo sono queste (e sono queste!), il teutonico Zimmer e la sua fabbrica di mostri potranno serenamente spadroneggiare per quanto vorranno, banchettando allegramente sui resti del cinema statunitense.

Certo, mi si può facilmente obiettare, la colpa originale è del tipo di cinema che viene prodotto a Hollywood oggi e di chi lo fa e decide, ma ciò non può essere un’attenuante: la storia si fa coi fatti e non con i se e i ma, e se questa generazione di compositori non potrà o non vorrà reagire lascerà, salvo qualcuno, un pessimo ricordo di sé e una traccia pressoché inesistente nella Storia della Musica.

Questo lo Stato dell’Unione.


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