Soundtrack: "Philomena" di Alexandre Desplat
Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore – * * * *
Perfetto corrispettivo musicale dell’umorismo amaro e pungente di Stephen Frears, il parigino Alexandre Desplat si conferma con Philomena un cantore dell’intimo, un esploratore attento e delicato di universi musicali nei quali muoversi con circospezione, quasi a non disturbare le emozioni…
L’umorismo amaro e pungente del cinema di Stephen Frears sembra aver ormai trovato in Alexandre Desplat un corrispettivo musicale perfetto. E qui, forse ancor più che in The Queen, il connubio tra dramma e commedia si stempera nel maestro parigino in una partitura acutamente ambigua, mormorante, tintinnante, dove le melodie corte e la coazione a ripetere dei nuclei principali – espedienti tipici del compositore – concorrono a un’architettura timbrica trasparente, ordinata ma psicologicamente sospesa, a tratti interrogativa, che si plasma ironicamente e malinconicamente sulle peregrinazioni dei due protagonisti, la madre (Judi Dench nominata agli Oscar) in cerca del figlio sottrattole e lo scrittore scettico (Steve Coogan, anche sceneggiatore) che ha deciso di aiutarla.
Pianoforte, arpa, celesta, vibrafono, triangolo, legni e archi sono l’organico scelto da Desplat, secondo una ripartizione che alleggerisce la strumentazione sino a renderla quasi fatata, misteriosamente divagante. A cominciare dal tema principale della protagonista, “Philomena”, un timido ma insistente valzerino per archi flautanti che torna ripetutamente a sorreggere la gentile, fragile ma risoluta determinazione della protagonista. Per contro “Martin”, il suo sostenitore, è descritto da un moto poco più agitato degli archi, su cui risuonano celesta e vibrafono, poi legni, pianoforte, in un registro dinamico sempre sommesso. Mesti accordi sull’ostinato pizzicato dei bassi caratterizzano “Birth”, dove si comprende bene come Desplat scelga timbri così rarefatti e liquescenti in ricercato, evidente conflitto con la drammaticità delle situazioni, creando un effetto di contrasto spiazzante ma drammaturgicamente efficace. Il ripetersi delle frasi secondo moduli fissi di accompagnamento (i celli di “Laundry”, prima della ripresa del tema di Philomena) trasmettono una ineluttabilità del destino e un accanimento degli eventi contro i quali si batte la donna, insieme con una tenerezza di fondo e a una toccante vulnerabilità. Il pianissimo dei pizzicati in do di “Adoption”, su cui i legni emettono deboli accordi prima dell’intervento di archi e pianoforte in funzione quasi concertante, sfocia in un cantabile dei violoncelli e in una serie di gravi accordi degli archi contrappuntati dall’arpa; strumento questo, insieme al pianoforte, protagonista anche di “Reminiscence”, dalle tonalità opache e crepuscolari.
Quasi frivolo, giocoso, evocativo di un clima sonoro da Luna Park, riappare il valzer iniziale in “Airport”, sorta di anticipazione della sua versione più scopertamente carosellistica, per organetto da fiera, nel surreale “Fairground Carousel”. Archi sognanti, lirici, contrappuntati dalla celesta accompagnano “Landing in USA” mentre la melodia del clarinetto sorretto dall’arpa di “Discovering Michael” è forse uno degli apici più toccanti della partitura nella sua pudica compostezza; di nuovo pizzicati e celesta, e poi il fraseggiare ombroso dei violini, in “Mary”. Il pianissimo quasi impercettibile del clarinetto leva la sua struggente melopea in “Confession”, prima che l’arpa cominci un disegno ripetuto in la minore a sostenere accordi degli archi e un disegno brillante, quasi spensierato di pianoforte e flauto. Saranno poi i pizzicati a sostituirsi all’arpa nell’ostinato di accompagnamento, creando una di quelle atmosfere di pacata ma inevitabile ossessività che è uno dei tratti stilistici distintivi del comporre desplatiano.
Laddove “Memories” riprende il valzer di Philomena, “No thought of Ireland” introduce nell’impasto degli archi su cui emerge il tocco dell’arpa elementi di ulteriore segretezza, con sonorità notturne e quasi imperscrutabili, e “Quiet time, to Pete’s” tesse un altro arabesco fra arpa e pizzicati sperdendosi poi in una scala discendente del piano fra tocchi di celesta. Il colore dello score si conferma di una fredda, trasparente impalpabilità, fatti salvi momenti di concentrazione più severamente ombrosa come nel fraseggio raccolto degli archi in “Anthony’s story”, il cui spessore sonoro prende eccezionalmente vigore nella seconda parte, senza tuttavia rinunciare a sonorità vitree: lo schema armonico (la minore-fa minore alternati) rimane nel cupo “Sister Hildegarde”, che si spegne fra le tenebre di accordi sommessamente minacciosi e in un sottilissimo, monotono e lento tremolio di violini. Un impianto che si direbbe quasi cameristico, quello di Desplat, o comunque solistico: ribadito in “Farewell” per chitarre, pianoforte e archi in sfondo, sorta di placido, ipnotizzante girotondo animato dall’intervento concertante del pianista che lascia fiorire una serie di tenui, vagamente funebri abbellimenti.
Desplat si conferma in buona sostanza un cantore dell’intimo, un esploratore attento e delicato di universi musicali nei quali muoversi con circospezione, sottovoce e in punta di piedi, quasi a non disturbare – nel momento stesso in cui sono evocate – le emozioni.
Titolo: Philomena (Id.)
Compositore: Alexandre Desplat
Etichetta: Universal Music Jazz & Classics, 2013
Numero dei brani: 19
Durata: 51′
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