Intervista a Michel Franco
Classe 1979, Michel Franco è uno sceneggiatore, produttore e regista messicano che negli ultimi anni a Cannes ha raccolto grandi consensi di critica e pubblico. Dopo il primo lungometraggio nel 2009, Daniel y Ana, si è aggiudicato il premio della sezione Un Certain Regard nel 2012 con Después de Lucía e nel 2015 il premio alla miglior sceneggiatura con Chronic. L’abbiamo incontrato durante il Festival del Cinema di Cartagena e abbiamo chiacchierato della sua idea di cinema…
Le tue storie si sviluppano come un iceberg del quale lo spettatore può vedere solo la punta, e i drammi si sviluppano a poco a poco, obbligando lo spettatore a concentrarsi tanto sui silenzi quanto sui dialoghi. Come scegli le storie che porterai in scena, e come si svolge il tuo processo di scrittura?
Più che le storie quello che mi appassiona sono i temi. Nel caso di Chronic volevo poter fare uno studio di un personaggio che fosse il più profondo e complesso possibile, che non fosse scontato. Ed è così che costruisco le mie sceneggiature: partendo da un tema, o da un personaggio, cercando di dire molto con poco e instaurando un dialogo con il pubblico, perché il cinema è anche e soprattutto questo: un’interazione costante con lo spettatore. La parte più difficile di un film molto probabilmente è scriverlo, e sapere che cosa fare della storia. Per me che normalmente i miei film li scrivo, dirigo e produco, la sceneggiatura è la parte fondamentale di qualsiasi lavoro. Ma nel momento in cui devo decidere tra questa o quella idea la cosa più importante da tenere in mente è sapere che in due o tre anni quell’argomento non avrà smesso di appassionarmi, né avrà smesso di interessare alla gente. È per questo che cerco di portare in scena argomenti universali, argomenti che ci possano toccare tutti.
C’è un Leitmotiv che tocca il tuo primo lungometraggio (Daniel y Ana) e il tuo successo a Cannes del 2012, Después de Lucía: la vergogna. Perché tanta attenzione a questo tema?
Mi interessano le relazioni sociali, le relazioni intime che nascono e crescono nelle famiglie e fuori da esse, il modo in cui la gente si relaziona con il mondo esterno e si costruisce una propria immagine, soprattutto quando a cercare di farlo sono ragazzi e ragazze adolescenti. Si tratta di dinamiche che forse appartengono di più a loro che ad altre fasce d’età. Mi interessa poter parlare delle difficoltà che incontriamo nei nostri tentativi di relazionarci con gli altri, indipendentemente dall’aiuto che ci viene offerto dall’educazione che abbiamo ricevuto o dal nostro bagaglio culturale. A volte le cose più semplici ci sembrano le più difficili.
Con Después de Lucía hai vinto la sezione Un Certain Regard e conosciuto Tim Roth. Com’è stato lavorarci assieme in Chronic, e com’è stato girare una pellicola in inglese, coprodotta tra Francia e Messico?
La nostra grande fortuna è stata poter fare affidamento su gente con la quale avevamo già un grande rapporto e altra con cui si è subito creata grande sintonia, come i messicani della casa di produzione di Lucía Films e gli altri di stanza negli Stati Uniti, la mia direttrice del casting di New York, e ovviamente l’entourage di Tim Roth. Tim Roth stesso è stato chiave in questa prima fase dei lavori.
In Chronic porti in scena i corpi di malati terminali ai loro ultimi giorni. Com’è stato lavorare con gli attori su un tema così complesso come la malattia, e perché questo tuo interesse per un tema di cui tratti sia lì sia in A los ojos?
L’unico attore con una malattia vera e propria in Chronic è il ragazzino in sedia a rotelle, uno degli ultimi pazienti di Tim Roth. A eccezione di lui, gli altri membri del cast sono tutti attori, inclusa la prima paziente, ridotta a uno scheletro, che accettò di perdere tutti quei chili pur di prendere parte al film. In quanto al tema in sé, mi affascina l’idea della vulnerabilità scatenata dalle malattie, la condizione della fragilità umana a cui nessuno di noi può sfuggire. Come regista mi sembra impossibile ignorare l’argomento, ignorare l’idea della morte, e quanto della vita quest’ultima ci possa insegnare, e credo che il cinema possa essere un buon mezzo per cercare di capirci di più.
Nelle ultime settimane, in Messico è uscito A los ojos, lavoro che avevi già presentato nel 2013 al Festival del Cinema di Morelia e al quale hai lavorato con tua sorella Victoria, che assieme a te ne ha firmato la regia. Perché dopo i tuoi primi lungometraggi hai scelto di dirigere un film con qualcuno?
Mi piaceva l’idea di unificare la visione documentaristica di mia sorella con il mio sguardo molto più teso alla “finzione” che alla realtà. Naturalmente lo sforzo ha comportato grandi difficoltà sia a livello estetico che di contenuti. Lavoravamo con una grande attrice, Mónica del Carmen, e con ragazzini senzatetto che non avevano mai recitato in vita loro, e il nostro obiettivo era fare in modo che sia gli attori non professionisti sia Mónica del Carmen si mostrassero sullo schermo con la stessa spontaneità. Io e mia sorella ci capiamo molto bene e abbiamo gusti e criteri molto simili, e questo ci ha permesso, dopo lunghe conversazioni, di giungere a un accordo su come dovesse essere girata la pellicola, fondendo per così dire le nostre due prospettive.
Com’è stato lavorare con attori non professionisti, specie con ragazzi in condizioni di povertà come quelli portati in scena in A los ojos?
Siamo stati aiutati da un’organizzazione sociale locale, Casa Alianza, che ci ha introdotto a quel mondo e ci ha permesso di sviluppare un approccio ai ragazzi che fosse sicuro e legittimo. Abbiamo finito per lavorare come gli stessi operatori sociali dell’organizzazione: abbiamo iniziato a parlare con i ragazzi, spiegando loro il proposito del film, e poco a poco li abbiamo abituati alla macchina da presa. È stato un processo molto lungo di cui si è occupata mia sorella, mentre io mi occupavo di più della componente “di finzione” del progetto. La stessa Mónica del Carmen ha svolto un ruolo chiave con i ragazzi, riuscendo a conquistarsi la loro fiducia.
Alle proiezioni stampa di A los ojos hai confessato che la sceneggiatura è stata “creata” direttamente sul set, e che hai girato il film senza avere un testo fisso con cui accompagnare le scene. Una scelta che per chi conosce il tuo cinema e apprezza la tua attenzione alla fase di scrittura può sembrare strana. Perché questa scelta, perché improvvisare?
Avevamo una linea argomentativa molto chiara e sapevamo perfettamente dove volevamo condurre la storia, però non volevamo imporre dialoghi predefiniti a nessuno, soprattutto nel caso di Benjamin, il ragazzino tossicodipendente di cui Mónica si prenderà cura. Non volevamo che, quando il ragazzo parlasse della sua storia, del suo passato e delle sue sensazioni, si sentisse obbligato a seguire dialoghi scelti da noi. Quando Benjamin parla del proprio processo di riabilitazione parla realmente, e così succede anche con i dialoghi con Omar, il figlio di Mónica. L’amicizia che si sviluppò tra i due durante le riprese fu proprio quella che catturammo con la camera. Ed è a questo che mi riferisco quando dico che non c’era una sceneggiatura vera e propria: avevamo quattro pagine, una linea argomentativa ben definita, e nulla più.
Un tratto distintivo della tua regia è la scelta di girare con la macchina da presa quasi sempre fissa…
Mi piace perché voglio dare allo spettatore la possibilità di decidere su cosa concentrarsi, senza che questo lo imponga io a ogni cambio di inquadratura. Che è un po’ la stessa ragione per la quale nei miei film non c’è mai musica e ci sono pochi dialoghi. Cerco la forma più pura di arrivare alle emozioni dello spettatore, senza per questo manipolarne le reazioni, nella misura più trasparente possibile.
Commenti recenti