Soundtrack: "Black Rain/Rush" di Hans Zimmer
Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore – * * * * * – * * ½
In termini molto semplificati, lo Zimmer di fine anni 80 costruiva in prima persona la propria poetica con sintesi linguistiche, invenzioni tematiche e architetture sonore impensabili. Lo Zimmer contemporaneo è invece succube del manierismo che troppi “fedeli” gli hanno costruito intorno…
Negli anni Cinquanta sulla rivista francese Les Temps Modernes apparve un saggio a firma del musicologo, compositore e direttore d’orchestra franco-polacco René Leibowitz intitolato “Les malheurs du wagnerisme”, ossia “i danni del wagnerismo”. Nello scritto, fondamentale per tutto ciò che sarebbe avvenuto nei decenni successivi a proposito dell’interpretazione dell’opera di Wagner, si sosteneva che buona parte dell’impopolarità e del rifiuto che la musica del genio di Lipsia suscitava in larghe fasce del pubblico era dovuta a una prassi interpretativa ed esecutiva micidiale, asettica e teutonica, fatta di esibizioni vocali muscolari e scarsa o nessuna attenzione al “mèlos”, alla parola cantata, alla melodia, alla struttura intima di quella musica; e che si sarebbe dovuto lavorare parecchio per emancipare Wagner dal fanatismo e dagli stereotipi accumulati dai suoi cosiddetti epigoni, imitatori, adepti o autoproclamatisi allievi, i quali avevano procurato appunto con il loro “wagnerismo” guai incalcolabili alla fruizione più autentica dell’opera wagneriana.
Forse è eccessivo trasporre questo ragionamento su Hans Zimmer, il quale si trova però nella curiosa condizione di essere da un lato considerabile come “wagneriano” (sia per l’imponenza strutturale di alcune sue partiture che per diverse citazioni dirette, come nel caso de Il Gladiatore) e dall’altra come vittima anch’egli, non si sa quanto consapevole, di uno “zimmerismo” che si è negli anni accumulato intorno alla sua figura, con eserciti di aiutanti, imitatori, epigoni o semplici copisti, i quali non fanno che attingere ai luoghi più comuni del suo comporre (il gigantismo sonoro, la marzialità elettronica, la gratuità degli effetti) con il risultato di indurre al rigetto – spesso ingiusto – nei confronti del modello originale. Uno “zimmerismo” che, per colmo di misura, ha contagiato e contagia a volte lo stesso Zimmer il quale, essendo ormai una fabbrica di soundtrack a cottimo, sembra non di rado autoconfinarsi a imitatore di sé medesimo, con partiture di mera routine quando non assolutamente e stucchevolmente ininfluenti, peraltro alternate a picchi di talento geniale e di suggestione tuttora irresistibile.
Poiché le prime avvisaglie di questo fenomeno possono essere datate a partire dalla fine degli anni 90 (gli anni, per capirci, di La sottile linea rossa, Il Principe d’Egitto e appunto Il Gladiatore), può rivelarsi utile un confronto ravvicinato fra uno dei capolavori della “prima maniera” zimmeriana, Black Rain – Pioggia sporca, formidabile, epico e ribollente poliziesco di ambientazione nipponica firmato da un Ridley Scott che – insieme al compianto fratello Tony – ha sempre avuto un rapporto privilegiato con Zimmer e i suoi epigoni, con il più recente lavoro del 56enne compositore anglo-tedesco, quel Rush di Ron Howard dove si rievoca ad alto tasso di adrenalina la cavalleresca rivalità fra i piloti di Formula 1 Niki Lauda e James Hunt. Il quarto di secolo che separa le due partiture vale probabilmente assai di più in termini di trasformazione delle tecniche e delle poetiche della musica cinematografica, e quindi dello stesso evolversi del percorso zimmeriano, e il raffronto fra i due lavori in tal senso aiuta a cogliere sia le differenze che gli elementi viceversa unificanti, attraverso i quali recuperare il senso dello “stile” di Zimmer: che esiste, a dispetto dei suoi numerosi detrattori, e rappresenta uno degli elementi di più forte novità nel panorama della musica per film dell’ultimo trentennio.
Ulteriormente prezioso, in questa operazione, si rivela il contributo editoriale della La-La Land che in un doppio CD ha esteso in 14 tracce, comprese alcune inutilizzate nel film, la partitura originale di Zimmer per il film di Scott, precedentemente confinata in una suite di venti minuti abbondanti nel vecchio album Emi, e a questo ha affiancato le canzoni di Iggy Pop, Ryuichi Sakamoto, UB40, Soul II Soul, Les Rita Mitsouko & Sparks e Gregg Altman, nonché la suite contenuta appunto nel CD originale, aggiungendovi però alcuni bonus track di versioni alternative, oltre ad un brano di “source music” composto da Shirley Walker che, caso a quel tempo più unico che raro di presenza femminile in questo campo, firmava anche la direzione d’orchestra.
Lo score, com’è noto, è letteralmente soggiogato dall’influenza delle modalità compositive orientali, e si sviluppa lungo due Leitmotiv principali: il primo è di gran lunga il più ricorrente ed è una sorta di nenia iterata, inconfondibilmente filogiapponese, che fa sommessamente capolino, nella suite, a metà di “Charlie Loses His Head”, quasi epicedio funebre per lo sfortunato personaggio del poliziotto interpretato da Andy Garcia, e che nel corso della partitura prende spesso la forma di melodia solenne e trascinante, trovando il momento del massimo trionfo nell’esposizione piena dello “skakuhachi” o flauto giapponese, in “Nick and Masa”, rutilante di percussioni marziali e via via arricchito di interventi strumentali sino all’epilogo scolpito negli ottoni. Il secondo tema, rintracciabile in “Sugai” e anch’esso più volte ripreso, somiglia invece a una perorazione accorata, slanciata su due note a salire, ed è una specie di “motto” immediatamente riconoscibile e vittorioso.
Con riferimento a questi due forti elementi tematici, va detto che sono proprio i bonus track a rivelarsi particolarmente interessanti: se “Airplane Muzak (Source Music)” della Walker è forse il brano più smaccatamente debitore ai canoni della musica giapponese, anche se trascritta per organico di archi pastosi e romantici, le due versioni alternative di “Charlie loses his head” sembrano lasciare da parte gli impasti elettronici e vagamente alieni altrove utilizzati da Zimmer e affidarsi all’orchestra tradizionale, con il ruolo solistico dell’oboe e – nel secondo track – del “koto”, una sorta di cetra giapponese, per un’esposizione particolarmente patetica e toccante del primo Leitmotiv. Le “alternate version” di brani contenuti nel primo dei due CD enfatizzano quella vena variativa e parafrastica che è una delle caratteristiche di Zimmer (si pensi al Gladiatore ma anche e forse soprattutto ad Hannibal): “Masa’s Reprimand” inizia su cupe, accigliate fasce elettroniche e alza poi, molto lento, il tema principale, mentre le due versioni di “Bikes/Fight” sono esercitazioni hi-tech sull’incalzante ritmo di base, sottolineato specialmente nella seconda traccia, per sole percussioni. “Charlie Loses His Head” poi, nella versione “corale liturgica”, assume quasi i connotati di una pagina horror.
La riproposta ampliata della partitura originale nel primo CD palesa comunque, nei minimi dettagli, l’eclettismo dell’ispirazione zimmeriana ma anche la sua “significanza” narrativa. Si trattava, per essere alla fine degli anni 80, di un lavoro estremamente complesso sul piano tecnologico: “Sato (Part I)/One-Way Glass” è ad esempio un brano assolutamente sperimentale, completamente elettronico e fantasmaticamente inafferrabile, proprio come il personaggio del killer malavitoso cui è associato. In realtà però il compositore fa continuamente interagire questo tipo di sonorità, quasi fantascientifiche, con i timbri e i moduli tradizionali della musica giapponese: il risultato (“Osaka/Phony Cops”, “You Gonna Be Nice?”) è suggestivamente anacronistico, anche perché gli interventi degli strumenti caratteristici, come appunto il “koto” o lo “shakuhachi”, vengono lasciati galleggiare spesso nel vuoto, sospesi sullo sfondo di echi, riverberi, lontane rimembranze, come si trattasse di due mondi sonori che si rispecchiano senza mai riuscire davvero a comunicare reciprocamente. Anche in questo, calzante metafora dello “scontro di civiltà” rappresentato nel film e risolto solo dall’amicizia leale fra i personaggi del detective Nick (Michael Douglas) e del suo collega giapponese Matsumoto (Ken Takakura).
Violente martellate della percussione sostengono un minaccioso, cupo tema pentatonale dei bassi in “Circling Motorbikes” mentre di nuovo suoni alieni e agghiaccianti abitano in “Sato (Parte IV)”, sigillato da lampi lividi del flauto. La versione inedita, perché inutilizzata al montaggio finale, di “Charlie Loses His Head” si mantiene invece su un versante più convenzionale, iniziando con sinistre dissonanze dei violini e proseguendo su accelerazioni ritmiche soffocanti e colpi ribattuti che ricordano un po’ il Brad Fiedel di Terminator. Qualche concessione alla disco-dance in “Sequins” è compensata dallo struggente lirismo di “Masa’s Reprimand”, nel quale si fa strada lo Zimmer maestoso, severo e dall’incedere solenne che ben conosciamo. Tutta in registro sovracuto, perforante e perturbante, è “The Steel Mill”, con violini e synt confinati nelle fasce più alte dello spettro acustico, mentre pagina sensazionalmente laboratoriale è “Steel Mill Chase”, e “Airplane/Escape” rievoca andature e toni grandiosi. Tre autentiche suite, tra gli otto e gli oltre nove minuti ciascuna, chiudono e racchiudono il CD e l’intero score: “Sugai (Part II)” affida a celli e bassi, sostenuti da rimbombanti pedali elettronici, la riesposizione di molto materiale autoctono, creando un climax di suspense atmosferica notturna e irrisolta, interrotta da raffiche improvvise e inserzioni aggressive, urticanti del flauto; “Arrival of Oyabuns/Sato’s Arrival/Meeting” costituisce un po’ la resa dei conti, sia nel film che nella partitura, e non a caso vi sentiamo ricapitolati alcuni degli elementi principali, peraltro portati a temperature sonore incandescenti. La scansione pesante delle percussioni sembra non dare tregua agli interventi degli strumenti locali, che lottano quasi per sopraffare l’onda sonora che li travolge. “Bikes/Fight/Nick and Masa” centrifuga tutti questi materiali in chiave di action music, ma il suo obiettivo è sfociare e liberarsi in un’esposizione altisonante e luminosa del tema principale dove archi, elettronica e strumenti locali confluiscono in un polistilismo cromatico incantatorio.
Da un luogo a un’epoca. Se è il Giappone il referente principale di Black Rain, in Rush si tratta invece degli anni 70: i favolosi e “maledetti” Seventies, che musicalmente si esplicarono in un mix di irriverenza, adrenalina, trasgressione e nostalgia del quale naturalmente il soundtrack del film di Howard non poteva non incaricarsi. Zimmer però ci sorprende iniziando in “1976” con flebili accordi dei violini cui segue un lungo recitativo per violoncello solo a esporre il tema conduttore, di mestizia quasi lugubre, luttuosa, forse presaga, che verrà poi ripreso pomposamente e più ottimisticamente dagli ottoni. Anche in questo caso il compositore ricerca una dicotomia esplicita fra ritmi e timbri degli anni 70, cui vanno ascritte le chitarre acustiche e gli stacchi di batteria di “Stopwatch” e “Into the Red”, e una sorta di pathos atemporale e quasi astratto che pedina l’amicizia-rivalità fra i due piloti, collegato all’apparizione del tema principale nelle forme più diverse. Ma l’operazione qui riesce fino a un certo punto, perché la partitura pur nella sua scioltezza e fluente immediatezza appare molto in ostaggio delle modalità funky-rock dell’epoca in cui si svolgono gli eventi, senza peraltro riuscire ad affrancarsene in una direzione sufficientemente originale: limiti del tutto evidenti in “20%” e “Watkins Glen”, brani che tendono al camuffamento fra le numerose “ospitate” del soundtrack, che comprendono brani-bandiera del periodo, da “Fame” di David Bowie alla planetaria “Gimme Some Lovin'” di Steve Winwood, da “I Hear You Knocking” di Dave Edmunds a “Dyna-Myte” dei Mud sino a “The Rocker” dei Thin Lizzy. Troppo esiguo lo spazio lasciato ai momenti più meditativi (“Loose Cannon”) e troppo facile stabilire un’equazione fra tensione e ritmi sussultori (“Car Trouble”). Occorre arrivare ai momenti più drammatici e tesi del film perché Zimmer trovi finalmente toni più ambivalenti e quindi interessanti, lasciando fluire malinconici e profetici accordi di chitarra in “Glück” ma soprattutto sospendendo le sonorità in “Nürburgring”, che inizia in un pianissimo siderale, si accende in scatti irresistibili della percussione e si conclude su sonorità quasi mistiche; così come “Inferno” somiglia quasi a un unico, lungo pedale di bassi e synt dal quale si alza a fatica un lamento di dolore e pena che si riallaccia al tema principale, per concludersi in un canto celestiale dei violini e poche note ribattute del pianoforte. Estremamente suggestivo, in “Mount Fuji”, riascoltare il canto tetro del violoncello sul tema conduttore fra il risuonare di chitarre elettriche e i rintocchi funebri dei timpani in quello che appare uno dei più felici momenti di saldatura fra le diverse componenti dello score. Adrenalinico e positivo, nel suo rullare precipitoso, risuona “For Love”, e quasi selvaggio, tribale “Reign” in cui fatica a farsi strada il leit-motiv; non c’è però l’immanenza psicologica, fatalistica che caratterizzava le progressioni sonore allucinate e apocalittiche di Inception. Qui tutto appare un po’ sbrigativo e autoreferenziale, e troppo spesso già sentito. Tuttavia in “Lost But Won” c’è ancora modo di essere ricatturati dall’inconsueto timbro del cello solo cui sono affidati l’incipit e la coda del brano, a dimostrazione che la dimensione cameristica a volte in Zimmer funziona meglio del dispiego di masse sonore sterminate; vale anche per “My Best Enemy”, che fra cello e archi lascia il tema fluire con calma lirica e pacificatoria, concludendo il brano così come si era aperto il CD, cioè con il rombo metalinguistico dei motori.
In termini molto semplificati possiamo dire che lo Zimmer della fine anni 80 era un compositore in ascesa, costruttore in prima persona della propria poetica e capace di sintesi linguistiche, invenzioni tematiche e architetture sonore impensabili per chiunque altro. Lo Zimmer contemporaneo è, come accennavamo inizialmente, succube del manierismo che troppi “fedeli” gli hanno costruito intorno; e quando un compositore, specie del suo talento innegabile, si trova a scrivere alla maniera di se stesso forse è il segnale che occorre cambiare strada.
Titolo: Black Rain – Pioggia sporca (Black Rain)
Compositore: Hans Zimmer
Etichetta: La-la Land Records, 1989
Numero dei brani: 14 + 18
Durata: 70′ 17” + 70′ 37”
Titolo: Rush (Rush)
Compositore: Hans Zimmer
Etichetta: Watertower Music, 2013
Numero dei brani: 24 (19 di commento + 5 canzoni)
Durata: 65′ 08”
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