Il cyberspazio sul grande schermo
Pubblicato su Bloom #12, Gennaio 2012
Pur avendo le caratteristiche per farne uno dei propri luoghi preferiti, il cinema si è avventurato di rado lungo le autostrade informatiche che costituiscono il cyberspazio. E quando l’ha fatto, l’ha fatto spesso in maniera poco convincente. Ma gli esempi davvero validi per fortuna non mancano…
Sembra paradossale pensare che il cinema – che avrebbe tutte le opportunità per fare del cyberspazio uno dei suoi luoghi preferiti – si sia in realtà avventurato ben poco lungo le autostrade informatiche cui William Gibson ha dato un nome nei primi anni Ottanta. E quando l’ha fatto, l’ha fatto spesso in maniera poco convincente. Al cinema è infatti sempre, o quasi sempre, mancata la capacità di raffigurare visivamente il cyberspazio in una maniera realmente intrigante e interessante. O forse è mancato solo il coraggio, perché il cinema si è sempre sentito in dovere di umanizzare il flusso di informazioni che popola il cyberspazio, spesso in modi che farebbero accapponare la pelle a qualunque tecnico informatico del mondo.
Proprio nello stesso anno in cui Gibson conia il temine “cyberspace”, il 1982, arriva nelle sale statunitensi Tron, che per quasi vent’anni sarà il più fulgido esempio di rappresentazione cinematografica del cyberspazio. Questo nonostante la Hollywood degli anni Novanta abbia adattato per il grande schermo due racconti dello stesso Gibson, Johnny Mnemonic e New Rose Hotel. Con Tron, il regista e sceneggiatore Steven Lisberger infila aberrazioni informatiche fin dall’inizio e mescola il cyberspazio vero e proprio con una più “semplice” realtà virtuale – che avrà raffigurazioni filmiche più precise nei successivi Brainstorm e Il tagliaerbe – ma avendo voluto concentrarsi sul mondo dei videogiochi è diventato l’idolo degli adolescenti nerd dell’epoca.
In questa sua prima regia per il cinema, Lisberger decide di dare ai vari software l’apparenza dei loro creatori umani e all’ambiente organizzato dal sistema operativo la struttura di una dittatura da cortina di ferro. O se vogliamo, quella di un’antica tirannia dedita allo schiavismo e ai giochi circensi, perché come detto il punto focale del film sono i videogame. Le linee di luce che Gibson descriverà in Neuromante due anni dopo non sono qui «ammassi e costellazioni di dati», ma scie lasciate da motociclette che corrono all’interno di un labirinto tentando di bloccarsi la strada a vicenda o da frisbee usati per mettere fuori combattimento gli avversari. Ma se è vero che agli occhi dello smaliziato pubblico del XXI secolo l’idea di dare una raffigurazione umanoide ai processi elettronici può apparire banale e forse persino stupida, a quelli degli adolescenti dei primi anni Ottanta era parsa un’intuizione stupefacente nella sua semplicità ed efficacia. Non dimentichiamo che all’epoca la fantascienza non aveva la (già poca) dignità che le si riconosce oggi, figuriamoci i videogiochi, e quello era il modo migliore – forse persino l’unico possibile, in quel momento – per rendere il film accessibile a chi non conoscesse almeno uno dei due ambiti. A riprova di questo ci sono i dialoghi italiani, che si sforzano di rendere comprensibili a tutti situazioni e personaggi legati al mondo dell’informatica ma dimostrano in un paio di occasioni come gli stessi traduttori non avessero ben chiara l’ambientazione.
Prodotto dalla Walt Disney, Tron è stato il primo film hollywoodiano a fare un uso massiccio della computer graphic, usando luci e colori per creare un mondo cibernetico di grande effetto disegnato tra gli altri dal fumettista francese Moebius e sottolineato dalle musiche di Wendy Carlos, che prima di cambiare sesso era stato uno dei pionieri della musica elettronica (anche con la colonna sonora di Arancia meccanica). Un mondo, però, sostanzialmente inerte. Se vale la similitudine concettualizzata da Gibson tra le luci del cyberspazio e quelle di una città che corre via sotto gli occhi dell’osservatore, le luci di Tron sono quelle di fuochi accesi in piccole oasi immobili sparse all’interno di un deserto affascinante ma senza vita. Esattamente come, ad esempio, le città marziane abbandonate dai terrestri raccontate da Ray Bradbury ne La gita da un milione di anni, contenuto nelle sue Cronache marziane.
Ma era il 1982, e vedere un programmatore di videogiochi come l’eroe che salva il mondo era un sogno che diventava realtà, per gli adolescenti. E vedere sul grande schermo quell’universo fino a quel momento solo sognato (da pochi) lasciò a bocca aperta il grande pubblico, permettendo alla Disney di incassare molto più di quanto speso per realizzarlo nonostante la concorrenza di pellicole come E.T. e Blade Runner e consegnando il film al culto pagano degli appassionati.
Sono dovuti passare quasi vent’anni prima che il cyberspazio riuscisse a trovare nuovamente lo stesso successo di pubblico, pur in una versione completamente diversa da quella ideata da Lisberger. Quando, all’inizio di aprile 1999, uscì nelle sale statunitensi Matrix il pubblico rispose con entusiasmo, facendo balzare il film in testa alla classifica degli incassi del week-end con una cifra tre volte più alta di quella incassata dal secondo classificato (la commedia giovanile tratta da Shakespeare 10 cose che odio di te) e due volte più alta rispetto al miglior incasso di tutti i tempi per un film uscito in quello stesso periodo dell’anno. Per quanto la Warner Bros. potesse credere nelle possibilità commerciali della pellicola, un simile successo era tutt’altro che ovvio. Certo, il protagonista Keanu Reeves aveva un grande traino sugli adolescenti che amano andare al cinema, ma i due registi avevano in curriculum solo due filmacci e il tema era comunque ostico per i non appassionati di fantascienza. In realtà, però, in quei vent’anni scarsi dall’uscita di Tron l’abitudine del grande pubblico al cyberpunk era aumentata a dismisura. Merito non solo della letteratura di genere ma anche e soprattutto dei prodotti audiovisivi provenienti dall’Europa e dall’estremo Oriente, che proponevano una fantascienza infinitamente più adulta di quella puntualmente presentata da Hollywood. E proprio a questo mare di produzioni straniere avevano attinto i fratelli Wachowski per ideare il loro film.
In modi e tempi diversi, il pubblico statunitense aveva incontrato e apprezzato personaggi come Max Headroom – avatar digitale di un giornalista televisivo, capace di spostarsi attraverso il cyberspazio e l’etere per comparire su qualunque monitor di computer o in qualunque televisore per assistere la sua controparte reale – e opere come il cartone animato (e prima ancora il fumetto) Ghost in the Shell, ambientato in un mondo completamente informatizzato i cui abitanti hanno impianti cibernetici o corpi interamente robotici e gli antagonisti sono software informatici che hanno sviluppato una loro coscienza.
Proprio dal cartone di Mamoru Oshii hanno preso spunto i fratelli Wachowski per ideare la “digital rain” di Matrix, la pioggia di caratteri verdi che riempie lo schermo dei monitor e rappresenta in pratica il codice sorgente del cyberspazio in cui hanno ambientato la loro storia. Alcuni personaggi del film sono in grado di leggere il codice e capire cosa sta succedendo all’interno della matrice, ma la maggior parte delle persone ci vive all’interno senza avere consapevolezza del fatto che quella che loro credono essere la realtà è “semplicemente” una simulazione digitale. Gli esseri umani hanno infatti combattuto e perso una guerra contro le macchine, che ora allevano gli uomini per cibarsi della loro energia vitale, connettendoli alla matrice per dar loro l’impressione di vivere una vita normale.
Il cyberspazio di Matrix è quindi effettivamente un ambiente elettronico che mette in connessione milioni di persone, dando loro la possibilità di interagire tra loro e di costruirsi un simulacro di vita (pur senza esserne consci). Una realtà virtuale a tutto tondo, che accompagna gli esseri umani dalla nascita fino al momento in cui le macchine hanno bisogno della loro energia vitale, e che ci viene presentata esattamente come la realtà che viviamo noi ogni giorno, senza alcuna invenzione visiva se non le capacità sovrumane di cui sono capaci i membri della resistenza che cercano di porre fine al dominio delle macchine.
In effetti, ciò che appare comune agli esempi più noti di cyberspazio cinematografico è il fatto che i programmi elettronici diventino una minaccia per l’uomo nel momento in cui sviluppano una coscienza propria ed esercitano il libero arbitrio. Situazione non nuova, nel cinema come nella letteratura: da Asimov a Terminator passando per 2001: Odissea nello spazio, i computer senzienti sono sempre stati il Male, il Nemico. E il cyberspazio ha dimostrato di essere il campo di battaglia perfetto.
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