Soundtrack: "Gravity" di Steven Price
Roberto Pugliese, in collaborazione con Colonne Sonore – * * * ½
Il substrato musicale di Gravity fa parte del più generale, mastodontico lavoro sul sonoro che caratterizza il film di Cuarón e il suo approccio al genere fantascientifico. D’altronde è lo stesso postulato “realistico” della vicenda a richiedere un sound completamente diverso dai toni epico-orrorifici alla Star Trek, Apollo 13 o alla Alien…
Il substrato musicale di Gravity fa indubbiamente parte del più generale, mastodontico lavoro sul sonoro che caratterizza il film di Cuarón e il suo approccio al genere fantascientifico. D’altronde è lo stesso postulato “realistico” della vicenda a richiedere un sound completamente diverso dai toni epico-orrorifici alla Star Trek, Apollo 13 o alla Alien. Vengono piuttosto alla mente le circonvoluzioni astratte e ipnotizzanti di Cliff Martinez per il Solaris di Soderbergh, per non parlare degli esperimenti elettronici di Eduard Artemiev sull’originale di Tarkovskji. Senza dimenticare che un film dal soggetto analogo a questo, Abbandonati nello spazio di John Sturges, si svolgeva in totale assenza di musica: quasi a ribadire che, se «nello spazio nessuno può sentirti urlare», a maggior ragione nessuno può sentire la musica.
Il giovane e talentuoso compositore inglese, che ha già all’attivo una solida esperienza di “synt programmer” (La leggenda degli uomini straordinari), di music editor (Il Signore degli Anelli) e di autore in proprio (Marley, La fine del mondo, Attack the Block – Invasione aliena), sembra orientato lungo un’ardua via intermedia: quella della convivenza tra elementi musicali puri, melodici, di trasognata impalpabilità, e la perlustrazione ai confini del rumore assoluto, dell’effetto asettico e quasi meccanico, da “musica concreta”. Il risultato è suggestivo, ancorché a rischio di una certa monotonia: e se è sicuramente vero che oggigiorno è assai raro imbattersi in una partitura cinematografica che, accanto alla veste acustica e strumentale, non si valga anche di una parte elettronica, non è men che vero che ancora più raro è incrociare un lavoro interamente, rigorosamente laboratoriale e computerizzato: all’interno del quale però due presenze “aliene” e in questo caso timbricamente rilevantissime come l’armonica a vetro di Alastair Malloy e l’organo a canne di Philip Collin si stagliano con sbalzata individualità. In ciò Price appare estremamente rigoroso e coerente, ma anche accortissimo nella selezione delle “voci” e presenze sonore.
Una prima osservazione riguarda le opzioni esercitate sull’elemento ritmico. A questo infatti, più che a qualunque altro, sono affidati i compiti di sottolineatura dei numerosi, incalzanti, soffocanti picchi drammatici del film: le accelerazioni percussive di “Fire” e, all’opposto, l’immobilizzarsi avviluppante, via via sciolto in scansioni progressive sempre più strette, di “Parachute”, sono in tal senso esemplari. Un secondo elemento di estremo interesse è la capacità del musicista di trasformare il rumore anche più disturbante e ostico in tassello di un universo musicale sui generis. A dirsi sembra facile, ma non lo è, come dimostrano molte, troppe partiture contemporanee dove l’incapacità di governare gli effetti e la genericità delle idee musicali si mescolano in un fastidioso, ripetitivo baccano senza senso. Qui viceversa, le fasce sonore crescenti e stroncate bruscamente quasi il respiro venisse a mancare di colpo (un espediente molto efficace e che ricorre più volte), la riproduzione del battito cardiaco (un autentico “tòpos”), il minaccioso rombare in sottofondo che allude a una “musica delle macchine” stritolante e inarrestabile (“In the Blind”) riescono a costruire un’impalcatura espressiva particolarmente idonea, che ingloba la componente più rumoristica in uno stringente dualismo fra dimensione “umana” e dimensione “tecnologica”, come accade nello strepitoso “Debris”, che associa i “sound effects” più radicali allo spettrale levarsi di una voce umana. Il lunghissimo (oltre undici minuti, durata inusuale per un “track”) “Don’t Let Go” costituisce quasi un’antologia interattiva di tutte queste componenti, e nella sua enunciazione iniziale viene declinata, su una specie di solenne struggimento, la vocazione più lirica e misticheggiante della partitura, con sonorità riverberate e vertiginose che ricordano alcune delle procedure utilizzate da Vangelis in Blade Runner. Si tratta della pagina più scopertamente “tradizionale” del lavoro, ampliata in un’accorata cantabilità dell’effetto-archi e ancorata a una struttura armonica languidamente implorante.
Il parco di risorse cui Price attinge è vasto, e sovente manipolato con spaesanti giochi di contrasto: qua e là, per stessa ammissione del musicista, fanno capolino echi dei Pink Floyd, “The Void” ingloba un effetto onde-radio così come nella coda di “Aurora Borealis”, che peraltro si apre con semplici accordi di pianoforte. Progressivamente, la musica tende a divenire un personaggio complementare alla solitudine dei personaggi, dilatandosi in tenui, vibranti sottofondi dal colore inesorabilmente malinconico e meditativo come “Aningaaq” e “Soyuz”, quest’ultimo brano di una sinistra, livida brillantezza. Si capisce poco a poco, inoltrandosi e lasciandosi catturare dai labirinti della partitura, che Price tiene conto anche del ruolo che il silenzio riveste nel film: questo stesso silenzio è assorbito nello score, restituito in un flusso indecifrabile e ipnotizzante, scomposto e ricomposto attraverso apparizioni melodiche che sembrano lottare per farsi largo nell’opprimente magma sonoro che le circonda, come il canto sommesso dei “celli” in “Tiangong”, che veleggia verso uno sfolgorante e ottimistico sviluppo. Tuttavia, proprio nelle pagine finali, vittoriose e di riscatto, come “Shenzou”, Price cede a qualche convenzione trionfalistica di troppo, soprattutto sul piano ritmico (occhieggiano andature di marcia vagamente zimmeriane) e melodico. Il conclusivo “Gravity” ci riporta però a quella rarefazione del suono che sembra appellarsi a pulsioni subliminali, subconscie della percezione, ed in questo caso la progressione incombente, maestosa riveste una valenza psicologica e un potere d’attrazione irresistibili.
Si può ben dire, dunque, che di rado le opzioni visive di un film dove tecnologia, immensità dello spazio, fatica umana e solitudine sono così radicalmente rappresentate hanno trovato un corrispettivo altrettanto ultimativo e aderente nelle opzioni musicali. E l’idea di un “sound design” allineato con l'”atmosfera-zero” del film in questo caso non è confinata a semplici escogitazioni hi-tech ma diventa esigenza espressiva e poetica, dimensione musicale quasi liturgica per un’impresa di sopravvivenza apparentemente impossibile.
Titolo: Gravity (Id.)
Compositore: Steven Price
Etichetta: WaterTower Music, 2012
Numero dei brani: 16
Durata: 71′ 44”
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