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Il doppiaggio: intervista a Gualtiero Cannarsi

4 aprile 2015 Interviste, Tecnica 26 Commenti
Il doppiaggio

Volenti o nolenti, il doppiaggio fa parte del mondo del cinema e della televisione italiana. Per provare a darne una fotografia inedita e approfondita ne abbiamo parlato a lungo con Gualtiero Cannarsi. Attivo nel settore editoriale dal 1993 e poi in quello del doppiaggio audiovisivo dal 1996, Cannarsi è ormai dal 2002 il dialoghista e direttore del doppiaggio di fiducia dello Studio Ghibli, di cui ha curato tutte le uscite italiane distribuite da Lucky Red…


Gualtiero Cannarsi al Museo Ghibli di MikataPer la prima domanda la tocco piano: la maggior parte dei miei colleghi disprezza il doppiaggio. Tu come lo difendi, agli occhi dei critici?
Forse ti sorprenderà, ma di mio non difendo il doppiaggio a prescindere. Non difendo il doppiaggio di per sé. Dal mio punto di vista, l’unico doppiaggio che si possa difendere, e che è anzi valido e desiderabile, è un doppiaggio davvero buono. E “doppiaggio davvero buono” per me significa prima di tutto davvero fedele all’originale. Realizzare il doppiaggio di un’opera straniera è una cosa violenta: vuol dire mettere le mani dentro a un’opera originale e completa, già fatta e finita, per alterarne una sua componente. Se non lo si fa alla massima fedeltà, mossi da un genuino spirito di volontà di divulgazione dell’opera per quella che è, allora il doppiaggio non si può proprio giustificare, figurarsi difenderlo. Quindi, ogni doppiaggio irrispettoso dell’originalità dell’opera prima è per me indifendibile. Se invece il doppiaggio è molto fedele e ben realizzato, allora permette di fruire un’opera audiovisiva nella propria lingua con la stessa immediatezza mediatica pensata dall’autore. Perché un’opera audiovisiva non è un’opera testo-visiva, si capisce dalle parole stesse. Tuttavia, ripeto, se questa violenta forma di localizzazione che è il doppiaggio non pone al primo posto delle sue priorità la fedeltà all’originale, allora non ha ragione di esistere. Perché non ci si può preoccupare del “come” si divulga un’opera, se prima non si è certi di stare divulgando la realtà di quell’opera, senza alterarla.

A questo proposito, a me sembra che negli ultimi anni la qualità media dei doppiaggi sia peggiorata molto. Cos’è cambiato, a livello pratico, per portare a questa deriva?
Non credo che tu sia nel giusto. Mi spiego: l’idea del doppiaggio italiano è sempre stata sbagliata alla radice. Da noi si è sempre pensato di fare un doppiaggio che fosse recitativamente, vocalmente, fascinoso per il pubblico nostrano, in barba allo stile e al contenuto dell’originale. Si è sempre mirato al pezzo di bravura dell’attore, come magari a teatro (che è difatti l’ambiente da cui muove la nostra tradizione di doppiaggio). Lo si è spesso fatto colmi della boria tipica di colui che non capisce qualcosa, ma pure si ritiene superiore a quel che non capisce. Per quanto riguarda la recitazione, dunque, benché io ritenga che il nostro settore abbia sempre vantato, e vanti tuttora, validissimi interpreti, penso che l’impostazione di base sia sempre stata errata nel porre eccessiva enfasi sulla voce, sulla vocalità, sulla drammaticità delle interpretazioni. Vedere un film classico, ovvero vecchio, doppiato e in originale è pressoché terribile: ci si rende subito conto di come la versione italiana sia molto più manierista rispetto all’originale. Questa tendenza recitativa fortunatamente va oggi scemando, benché sia sempre presente. Il nostro doppiaggio continua a essere in genere sovraenfatico, didascalico, troppo caricato, a tratti macchiettistico, con le voci dei personaggi sempre molto spinte e poste in primo piano rispetto all’audio delle scene. Se non ce ne si accorge, in genere è solo perché quello è il suono dei film a cui siamo abituati. Ma soprattutto, i doppiaggi attuali non sono, in media, adattati meno fedelmente dei vecchi, anzi è vero tutto il contrario. In passato era buona norma reinventarsi pressoché tutto o quasi del testo originale, a proprio esclusivo gusto, uso e consumo. È una realtà imbarazzante perlopiù sconosciuta perché, un tempo, le possibilità di fruire le opere in lingua originale erano ridottissime. Ma se si prova a paragonare il testo del doppiaggio italiano di un film, anche classico, con quello dell’originale, si troveranno strafalcioni, incomprensioni, invenzioni belle e buone e rimaneggiamenti di ogni genere del tutto inimmaginabili per l’appassionato in buona fede. Si potrebbe ben dire che il pubblico italiano è stato da sempre ingannato e ha creduto di vedere dei film che in realtà erano solo deformazioni di quello che erano in realtà e che avrebbero dovuto essere.

"Sebbene sia stata anche depressa, questa città mi piace."  Kiki è il primo film Ghibli visto da Gualtiero in piena coscienza, il primo su cui avrebbe poi lavorato e a tutt'oggi tra i suoi favoriti.Però rispetto a una volta la qualità della lingua usata nei doppiaggi si è abbassata e appiattita: ci sono molti strafalcioni grammaticali, modi di dire regionali e persino doppiatori che non nascondono il proprio accento…
Da un lato vorrei rispondere che oggi come oggi si tende a ricercare uno stile di doppiaggio meno “ingessato”, meno “di maniera” di quanto non accadesse un tempo, e questa tendenza sicuramente è reale, tuttavia non si tratta del caso in questione. Infatti, il doppiaggio è per sua natura una simbolica finzione sulla finzione, e anzi la ricerca della fedeltà di traduzione richiede un uso quanto più estensivo del nostro vocabolario e delle nostre strutture morfosintattiche. Dunque, ahimè, il punto non è questo. Credo piuttosto che l’imbarbarimento linguistico di cui giustamente parli non sia una faccenda legata al doppiaggio, ma alla nostra società, di cui il doppiaggio non è che uno dei molti specchi. Com’è evidente, tanto nella produzione nostrana di ogni forma di intrattenimento, quanto persino in programmi cosiddetti di “approfondimento culturale” il turpiloquio, il gergo, i regionalismi sono all’ordine del giorno. Le persone si sentono simpatiche e alla moda nel credersi “popolari” per tramite della volgarità, già che “popolo” e “volgo” sarebbero in effetti sinonimi. D’altro canto, in un settore retto dalla mera legge di mercato, è inevitabile: se si cerca il più vasto pubblico, quello è il volgo per definizione. Il Vocabolario Treccani definisce il termine “volgo” proprio così: «In una società organizzata, la classe popolare, che ne costituisce l’elemento numericamente predominante ma meno provveduto culturalmente e meno rilevante nei riguardi della vita economica e politica.» Come si vede, però, in una società a benessere diffuso come quella postmoderna, l’ultima parte dell’asserto, relativa alla minore rilevanza economica e politica, è di fatto sovvertita: oggigiorno sia nel mercato che in politica è infatti solo la quantità, ovvero il mero numero, a contare. Indi ogni offerta sul mercato, o in politica, venendo determinata dalla domanda maggioritaria, non fa che essere volgarizzata. Per risultare accessibili e graditi a una fascia di pubblico quanto più vasta possibile, non ci si può che volgarizzare, in ogni ambito.

In questi ultimi anni hanno preso molto piede anche le sottotitolature amatoriali distribuite su internet, soprattutto per le serie televisive. Non credi che quando le generazioni cresciute con queste saranno vecchie, allora per una questione di abitudine si potrà rinunciare definitivamente al doppiaggio, a parte ovviamente nei programmi per bambini?
Credo di no, perché la pigrizia intellettuale spadroneggia sempre nel genere umano, e internet non fa che enfatizzarla. Se questo genere di diffusione amatoriale prende piede è solo perché è comoda, gratuita e a portata di mano. Ma per contro, induce a una fruizione sempre più estemporanea e superficiale dei prodotti audiovisivi. Dubito che in Italia si avrà mai un grande pubblico disposto a pagare per vedere un’opera sottotitolata, al cinema come in home-video. Avendola gratis, beh, allora va tutto bene, no? Del resto a caval donato non si guarda in bocca. E infatti queste localizzazioni amatoriali sono spesso parimenti sballate, anche se in un modo diverso, che i peggiori doppiaggi. E nessuno sembra darsene pena.

Un’altra cosa che si vede spesso ultimamente sono gli adattamenti visivi, ossia la ricreazione delle scritte che sono mostrate in dettaglio nel corso del film. A me sembra una cosa ridicola vedere Capitan America appuntarsi di ascoltare le canzoni di Vasco Rossi, a te no?
Anche a me la cosa è sempre parsa ridicola, fin dai tempi dei nomi dei nani di Snow White scritti in italiano sui loro lettini. Volendo analizzare in maniera obiettiva questo genere di “fastidio”, il punto è che la realtà narrativa di ogni finzione, ovvero quella dimensione esistenziale che è interna alla storia, è estranea alla sua localizzazione, che è invece esterna. In teatro si parla di un’ideale “quarta parete”, quella che – invisibile – separa la dimensione del palco, con gli attori e le loro vicende, dalla platea con il pubblico. Allo stesso modo, se io guardo un film ambientato in America, in cui due americani parlano fra loro, poco conta che io – in mezzo al pubblico – li senta parlare in italiano per tramite del doppiaggio. Il mio subconscio sa bene che i personaggi, nella loro realtà narrativa, fra loro stanno parlando americano, e sono solo io che fittizziamente li sento in italiano. È un gioco di simbolismo, di rappresentazione, ovvero un delicato equilibrio percettivo che non può essere infranto, a mio giudizio, pena la perdita della sospensione dell’incredulità.

Gualtiero CannarsiPeraltro, tu sei famoso per l’enorme attenzione con cui cerchi di rispettare la cultura originale da cui proviene il testo. Non temi però che questo a volte possa alienare lo spettatore casuale?
In effetti no. Non sono un venditore, e non voglio far piacere niente a nessuno, non voglio compiacere nessuno. Non è questo il mio scopo, non è questo il mio compito. Il mio compito di traduttore, adattatore, direttore di doppiaggio è semplicemente quello di divulgare delle opere straniere al pubblico dei miei connazionali. Divulgare delle opere straniere significa, in primis, renderle fruibili per ciò che quelle opere sono, intaccandone il meno possibile contenuto e stile originali. Altrimenti non starei divulgando quelle opere, ne starei spacciando delle illegittime falsificazioni. Una volta che le opere saranno quanto più proposte per quello che sono, ciascuno potrà legittimamente decidere se quelle opere gli piacciono o meno, ma io non devo essere interessato al risultato della scelta di ciascuno. Non sono l’autore, sono un intermediario tra lui e una platea straniera. Sono un mero operatore di servizio. Il mio compito è trasporre ogni opera da una lingua a un’altra cercando di perdere, di sacrificare il meno possibile nel processo di trasposizione. In questo modo, chi tra i miei connazionali avrà l’interesse, la voglia, la spinta a comprendere avrà dinanzi ai suoi occhi il materiale con cui cimentarsi. Chi non fosse interessato, di certo non lo sarebbe stato comunque. Al contrario, se “semplificassi” (ovvero: snaturassi) le opere su cui lavoro per venire incontro ai (presunti) gusti della (presunta) maggioranza del pubblico locale, non farei che spogliare quelle opere del loro valore, e questa sì sarebbe una perdita definitiva, per tutti – interessati e non. Come si capirà, non è pensabile sacrificare l’occasione di incontro con una cultura straniera, data ai volenterosi e virtuosi, per il futile sollazzo dato allo “spettatore casuale”.

Qualche mese fa hai scritto su un forum che il modo in cui dirigi il doppiaggio oggi deriva da un dietro le quinte di Princess Mononoke. Vuoi spiegare meglio questa cosa?
Era forse il 1998 quando vidi per la prima volta lo speciale intitolato Mononoke-Hime ga Koushite Umareta (“Così nacque Mononoke Hime“), pubblicato dallo Studio Ghibli in tre lunghi volumi audiovisivi. Nel terzo, grande spazio era dedicato al doppiaggio originale. A quei tempi avevo già mosso i miei primi passi nelle sale di doppiaggio nostrane, dove un certo tipo di estemporaneità, di faciloneria, di sommarietà del lavoro mi pareva farla da padrone. Com’è possibile dirigere un doppiaggio senza conoscere l’opera che si dirige in modo davvero approfondito? Come è possibile dare indicazioni registiche agli attori senza comprendere ogni sfumatura dei personaggi? Queste erano le domande che mi vorticavano in testa. Quando vidi lo svolgersi del doppiaggio originale di Mononoke Hime, vi trovai semplicemente quello che avevo sempre pensato il doppiaggio dovesse essere, con il regista che si prodiga per far capire agli interpreti cosa i loro personaggi pensino, e perché, e quindi perché dicano ogni cosa in un dato modo piuttosto che in un altro. E quindi in qualche modo feci definitivamente mio quel modus operandi.

La serie originale di Neon Genesis Evangelion è stato il primo lavoro in cui Gualtiero ha iniziato a manifestare la sua idea di doppiaggio e localizzazione italiana.Immagino tu abbia poi trovato resistenza da parte dei doppiatori, quando l’hai messo in pratica…
In verità, direi di no. Il mio modo di lavorare sarà certamente risultato peculiare a tanti colleghi doppiatori, ma come dicevo il nostro settore è popolato da moltissimi attori e attrici di grande valore e pregio. Questo include in genere la loro tendenza, disposizione e disponibilità a fare un buon lavoro, a svolgere al meglio la propria attività recitativa. E per quanto un po’ inusuale, per quanto un po’ maniacale, forse, il mio lavoro è chiaramente teso a una recitazione precisamente e scrupolosamente vicina all’originale. Ciò che sulle prime può essere impalpabile per il pubblico, che non ha una controprova immediata, proprio per gli attori che recitano sull’originale risulta presto evidente. Quindi, riconoscendo ciò, in genere i doppiatori con cui lavoro si armano di santa pazienza e si sforzano di seguirmi lungo un sentiero lavorativo probabilmente più tortuoso e ostico, ma credo più appagante anche per loro. E devo dire che io stesso, soprattutto andandomi affinando nel tempo nel mio approccio alla direzione di doppiaggio, ho raccolto più e più dimostrazioni di stima da tanti stimatissimi colleghi. Ai quali, peraltro, io non posso che essere infinitamente grato. Perché è solo tramite le loro capacità che la mia pur approfondita conoscenza dei film su cui lavoriamo può tradursi in realtà. Credo che alla base di un buon doppiaggio ci sia proprio una collaborazione di questo tipo, una sorta di mettersi al servizio l’uno dell’altro, per essere tutti insieme al servizio del film.

In occasione dell’uscita di Ponyo sulla scogliera nel 2009, tu scrivesti una lettera aperta ai fan di animazione giapponese per esortarli ad andare al cinema, perché era l’unico modo per creare in Italia una vera cultura sull’argomento. Hai avuto l’impressione che questa tua lettera abbia avuto effetto?
Questo è davvero difficile da dirsi. Il mio tentativo era di sensibilizzare un certo “zoccolo duro” di appassionati, del quale mi sento tutto sommato parte. Di certo nel frattempo il mercato cinematografico italiano degli anime è molto cambiato, si è allargato parecchio, ma non credo che la mia ingenua lettera aperta abbia alcun merito reale. Direi piuttosto che la Lucky Red ha lavorato con una serietà e una costanza quasi inedite per la nostra nicchia, investendo nella distribuzione e nel recupero dell’intero catalogo dello Studio Ghibli. Questo ha contribuito a sviluppare un nuovo pubblico per gli anime in Italia, direi più trasversale, meno di nicchia, meno ripiegato su se stesso. Forse è anche per questo se, con lo scoppio della moda degli “eventi cinematografici per un tempo limitato”, anche l’animazione giapponese ha subito trovato posto nella nuova tendenza.

Gualtiero CannarsiMa ti sembra che questi “eventi speciali” con distribuzione di 2-3 giorni avvicinino effettivamente più spettatori al genere, o sono solo i soliti appassionati che hanno semplicemente occasione di andare più spesso al cinema?
Le proposte cinematografiche “ad evento” innescano nel pubblico la logica appunto “dell’evento”, ovvero il pensare che «accidenti, non me lo devo assolutamente perdere!» In realtà, oggi come oggi credo che i veri appassionati di qualcosa siano quelli che andrebbero a fruire quel qualcosa in ogni caso. Ma i veri appassionati, intendo quelli veramente motivati, sono sempre pochi, sempre meno, in ogni ambito. Specie in quelli dell’intrattenimento audiovisivo. Il consumismo sfrenato rende tutto incolore, tutto disciolto in uno scorrere di giornate prive di soluzione di continuità, ottenebrate dal rumore di fondo del consumismo stesso. Dunque, in un mondo sedato da una proposta consumistica terribilmente sovradimensionata, si cercano tutti i modi per pungolare l’interesse del consumatore. Ma la società postmoderna, oltre che individualistica, è sempre più narcisistica, ormai pressoché ai limiti dell’autismo. Quindi tutto ciò che si riesce a vendere al pubblico generalista non sono che degli appigli all’impalcatura del proprio ego, come l’idea di prendere parte a un’esperienza, a un evento appunto. Non si vende tanto qualcosa, quanto un modo per far sentire l’acquirente parte di qualcosa e compiacersi di se stesso.

Noi siamo entrambi nati negli anni 70, e siamo entrambi cresciuti guardando in Tv i cartoni animati giapponesi. Sei libero di rispondermi con un «no comment», ma quanti danni ha fatto all’animazione giapponese Alessandra Valeri Manera?
Non credo che la signora Alessandra Valeri Manera abbia fatto particolari danni all’animazione giapponese in quanto tale, neppure limitatamente all’Italia. Sicuramente le localizzazioni dei prodotti da lei curati erano stupidamente infedeli e hanno fatto danno alle opere stesse, questo è chiaro. Ma sopra a tutto, credo che quell’idea di localizzazione, quell’idea di puericultura, se vogliamo, fosse antipedagogica e abbia fatto danno al pubblico infantile dei tempi. Perché era un modo di adattare le opere straniere che muoveva da presupposti stupidi e lo faceva operando scelte stupide che creavano punti di vera stupidità in storie proposte ai più giovani. Credo che trattare i più giovani come degli stupidi, come degli idioti che non possono capire la verità delle cose, sia davvero una cosa orribile e terribile. Non si può mentire ai più piccoli, specie poi per proprio comodo. Delle menzogne è ben meglio il silenzio. Tra la visione di un’opera mistificata e instupidita e il nulla, ben venga il nulla.

San, la Principessa Spettro, con sua madre Moro alle spalle. Il doppiaggio e successivo ri-doppiaggio italiani di "Princess Mononoke" hanno sollevato molta polvere nell'ambiente nostrano, ma è il doppiaggio originale giapponese di questo film ad avere molto influenzato Gualtiero.Adesso invece ogni tanto si fanno doppiare personaggi dell’animazione – sempre in importanti film hollywoodiani – a nomi noti che non sono doppiatori professionisti ma nemmeno attori: gente come Fabio Volo, Fabrizio Frizzi o il terrificante DJ Francesco di Robots. Quanto è deleteria questa abitudine, per il pubblico e per lo stesso mondo del cinema?
Credo che il punto non sia tanto l’affidarsi a un “non doppiatore”, o a un “personaggio famoso”, ma le effettive capacità recitative, il talento della persona chiamata a interpretare un ruolo. Finché si tiene al centro del proprio interesse la riuscita interpretativa dei personaggi, credo che qualsiasi interprete possa essere valido fintanto che si riprova tale. Chiaramente, se l’interesse è solo quello di mettere sul cartellone un nome di richiamo, allora potranno esserci problemi e guai per la riuscita artistica del prodotto.

Quando capita c’è anche l’abitudine di far doppiare certi personaggi da attori stranieri per riportare l’accento con cui si esprimono nella versione originale. È capitato ad esempio a Cate Blanchett doppiata da Marit Nissen in Intrigo a Berlino e a Ken Watanabe doppiato da Haruhiko Yamanouchi nei suoi film hollywoodiani, come Inception e Godzilla. Da quello che ho potuto leggere in giro per blog e forum, mi pare che il pubblico non apprezzi granché. Pensi sia meglio invece usare attori italiani che imitano l’accento straniero, come hai fatto proprio tu in Frankenweenie?
Come sopra, molto dipende dalle capacità recitative dell’interprete scelto. Ma ancor prima, anche in questo caso bisogna andare a vedere la scelta fatta nell’originale. Se nell’originale di un film giapponese c’è un personaggio interpretato da un attore tedesco, ad esempio, nel confezionare l’edizione italiana di quel film giapponese allora tutta la lingua giapponese e tutti i giapponesi diverranno italiano e italiani, ma il tedesco resta tedesco per noi italiani come per loro giapponesi, no? È una linea discriminante molto semplice e netta: quando si parla di traduzione, l’originale detta Legge in tutto, in ogni scelta. Poi le scelte dipendono anche dalle possibilità reali a disposizione in fase di realizzazione del doppiaggio.

Domanda banale ma d’obbligo: quanto cambia doppiare un cartone animato rispetto a un film con attori in carne e ossa?
Per la mia esperienza, che è però alquanto limitata in merito al doppiaggio di opere live action, la differenza sta nella maggiore difficoltà del doppiare l’animazione. Nell’animazione, la voce dell’interprete, ovvero la recitazione del doppiatore, “fa di più” che in un film con attori, dato che è proprio nei disegni animati che viene demandata alla recitazione vocale una maggiore fetta di espressività, atta a sopperire la naturale carenza espressiva del comparto visivo. Per quanto sia ben animato, infatti, le movenze e le espressioni facciali di un personaggio disegnato saranno sempre più limitate di quelle di un attore in carne e ossa. Anche per i doppiatori stessi, quindi, interpretare un personaggio animato è più difficile: nelle immagini avrà meno appigli, meno cenni a cui “incollare” l’interpretazione vocale. Nell’animazione, più che mai la caratterizzazione del personaggio è influenzata dalla recitazione dell’originale: questo ci fa capire anche come un’attenta, documentata e scrupolosa direzione del doppiaggio italiano sia con i disegni animati due volte più importante e responsabile della riuscita di un doppiaggio straniero.

Gundam alle spalle di Gualtiero CannarsiIn conclusione mi sembra giusto parlare in maniera più specifica della tua carriera: come sei arrivato a occuparti di doppiaggio?
Ti darò la risposta più breve che abbia mai dato a questo genere di domanda: sono arrivato a occuparmi di doppiaggio perché, lavorando dapprima per una casa di distribuzione che il doppiaggio lo commissionava, proprio non riuscivamo a ottenere un doppiaggio italiano fatto nella maniera che ritenevamo giusta, sensata e corretta. E quindi, in molti modi, iniziammo a tracciare la nostra strada, un nostro modo di lavoro. Era la nostra visione delle cose, di cui io sono sempre stato il primo fautore e interprete, a molti livelli, tra cui da ultimo come artefice diretto.

E oggi sei il dialoghista e direttore del doppiaggio di fiducia dello Studio Ghibli…
Considerando che non avevo mai intesto, mai desiderato intraprendere questa “carriera” (virgolette d’obbligo), è una cosa che sorprende a tutt’oggi anche me. È tutto capitato senza schietta intenzione, per caso e per necessità. Ma del resto, io credo che il doppiaggio, la localizzazione degli audiovisivi, si stia necessariamente muovendo nella direzione che di mio ho sempre ritenuto corretta. Con un pubblico sempre più vicino all’originalità delle opere, anche il doppiaggio italiano non può che accostarsi a quella, infine. Ovvero il tempo delle mistificazioni va esaurendosi, auspicabilmente e spontaneamente. Che forse per un acuto attaccamento all’originalità delle opere umane io mi sia da sempre mosso e battuto in questa direzione è probabilmente solo un fatto di anticipo sui tempi, ma nulla di realmente straordinario. In fondo, non c’è nulla di più banale della semplicità del vero, no?


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Attualmente ci sono 26 commenti a questo articolo:

  1. Fabrizio Degni ha detto:

    Grazie Alberto per questa gemma… il doppiaggio da l’anima alle immagini, le rende vive e contribuisce i maniera determinante alla buona riuscita di una pellicola.
    Non e’ solo questione di bravura, ma anche di trovare la giusta voce per il personaggio a cui si abbini e questo tanto per il cinema quanto per il mondo videoludico, dove ci sono produzioni tripla A che godono di una localizzazione italiana dai costi stratosferici. Proprio giorni fa ho avuto modo di tornare sul Sam & Max localizzato da CTO… che capolavoro… che poesia.

  2. Alberto Cassani ha detto:

    “Hit the Road” è uno dei miei videogiochi preferiti in assoluto (molto meno le brevi avventure di qualche anno dopo), però le sottigliezze del doppiaggio non me le ricordo.

    C’è una cosa che Gualtiero dice cui non si pensa mai ma che secondo me dovrebbe riaprire la discussione tra sottotitoli e doppiaggio: il film è un’opera audiovisiva, non testo-visiva. E’ vero che il doppiaggio è un lavoro violento, ma il sottotitolo lo è nella stessa misura anche se in un modo diverso, perché mi obbliga a fare una cosa (leggere) che il film originale non mi vuole far fare.

  3. Fabrizio Degni ha detto:

    Ciao Alberto,
    purtroppo non potendo beneficiare di un conoscenza tale dell’inglese in grado di permettermi di godere di un film senza sottotitoli, sono costretto ad averli nelle edizioni in lingua originale e confermo quanto siano deleteri ad una visione omnicomprensiva del film. Spesso per leggerli perdo frammenti d’immagine, scene magari che riguardando il film una seconda volta permettono di cogliere particolari microscopici ma che fanno la differenza. Inoltre significato a parte si perde anche la mimica dovendo leggere… e i sottotitoli non sempre, purtroppo, rispecchiano quanto nei dialoghi a voce.
    Il top sarebbe poter guardare il film piu’ volte la prima con i sottotitoli, la seconda senza…

  4. anonimo ha detto:

    Ottima intervista, nella quale vengono detto cose giuste e spesso ignorate dai piu’.

    Ci tengo cmq a sottotlineare come la fedelta’ di un doppiaggio dipenda da due cose:
    1- fedelta’ all’originale della traduzione/dialogh italiani;
    2- fedelta’ /aderenza all’originale della recitazione nel doppiaggio.

    Quanti sono contrari al doppiaggio, tendono quasi sempre ad ignorare cio’.

    Spesso si e’ contro il doppiaggio perche’ i personaggi dicono cose diverse, ignorando i due passaggi di lavorazione,

    Eliminando il doppiaggio, si eliminano i problemi relativi al punto 2, ma rimangono tutti quelli relativi al punto 1 (che spesso sono il vero problema della localizzazioni italiane!).

    Inoltre non capisco come, in presenza di un doppiaggio scadente, si possa diventare ‘automaticamente’ contrari al doppiaggio stesso. Sarebbe come dire “dato che alcune automobili si rompono, sono contrario alle automobili”. Si ignora che l’alternativa al cattivo doppiaggio e’ un buon doppiaggio e non un non-doppiaggio.

    Infine, ricordo ai detrattori del doppiaggio che un film non e’ fatto per essere letto e nemmeno i suoi dialoghi lo sono.
    Dal mio punto di vista, il modo migliore per fruire di un’opera straniera e’ quello di affidarsi al doppiaggio giusto e fedele (se c’e’) per la prima visione e, solo quando si e’ familiarizzato con l’opera, passare alla visione con soli sottotitoli.

    P.S.: occorre ricordare come Gualtiero Cannarsi, nonostante si occupi prevalentemente di cartoni animati (settore di serie b nel mondo del doppiaggio italiano) lavori regolarmente con le voci piu’ importanti e prestigiose del panorama del doppiaggio cinematografico italiano, le stesse che doppiano i principali blockbuster hollywoodiani.

  5. Alberto Cassani ha detto:

    Da quello che capisco parlando con i colleghi, ho l’impressione che i detrattori del doppiaggio lo siano non per un discorso qualitativo, ma per uno autoriale: il film è stato concepito dal suo regista nella tal lingua, quindi per rispetto dell’opera bisogna vederla nella tal lingua. Qualunque discussione è destinata ad arenarsi in nome di questa autorialità. Peggio ancora: molti critici rifiutano a prescindere la versione italiana, alla faccia dei loro lettori che invece quella vedono.

    I sottotitoli sono evidentemente visti come qualcosa di meno invasivo, anche se come ha sottolineato Gualtiero snaturano completamente il modo di visione di un film. Senza contare che comunque lì c’è un lavoro di sintesi dei dialoghi è spesso necessariamente più forte rispetto al doppiaggio. C’è da dire anche che l’intensità di un’interpretazione vocale la si può apprezzare solo se davvero si conosce la lingua che si sta ascoltando, altrimenti è impossibile “pesare” correttamente il tono delle parole, senza contare che poi la musicalità che una lingua ha per uno straniero è ben diversa da quella che ha per un madrelingua.

    Al di là di questo, a me premerebbe soprattutto far capire che il 90% del pubblico cinematografico e soprattutto televisivo, senza doppiaggio non guarderebbe film e serie tv. Non solo per una mera questione di pigrizia, ma anche per una più “tecnica”: più si invecchia più si vede male, più si fa fatica a leggere. E quello che mi sorprende è che queste cose le si sente dire da qualunque spettatore non appassionato, di qualunque età ed estrazione, basterebbe ascoltare…

  6. l'anonimo-di-prima ha detto:

    Condivido quanto scritto qui sopra da Alberto Cassani.

    Sul fatto che “il 90% del pubblico cinematografico e soprattutto televisivo, senza doppiaggio non guarderebbe film e serie tv”, per le ragioni che dici: VERISSIMO.
    Aggiungo che chiunque puo’ arrivare con un paio di clic alla pagina di wikipedia alla voce ‘doppiaggio’ e osservare la mappa dei paesi europei che usufruiscono di doppiaggio per *tutto*. Oltre all’italia ci sono Germania, Francia, Spagna, Svizzera, Austria, Ungheria, ecc. (i paesi di lingua inglese non fanno testo, per ovvie ragioni).

    Sul fatto che “C’è da dire anche che l’intensità di un’interpretazione vocale la si può apprezzare solo se davvero si conosce la lingua che si sta ascoltando, altrimenti è impossibile “pesare” correttamente il tono delle parole, senza contare che poi la musicalità che una lingua ha per uno straniero è ben diversa da quella che ha per un madrelingua.”: VERISSIMO.
    Aggiungo che e’ tanto piu’ vero se parliamo di una lingua come il giapponese e degli audiovisivi provenienti da una cultura tanto diversa dalla nostra.
    Il modo in cui la lingua inglese (o giapponese) ‘suona’ ad un madrelingua inglese (o giapponese) nato e cresciuto in un paese anglofono (o in Giappone), e’ completamente diverso da come la stessa lingua viene percepita da un italiano.

    Quando dici che “i detrattori del doppiaggio lo siano non per un discorso qualitativo, ma per uno autoriale: il film è stato concepito dal suo regista nella tal lingua, quindi per rispetto dell’opera bisogna vederla nella tal lingua”, mi verrebbe voglia di chiedere a questi detrattori se sanno che *tutti* gli audiovisivi PAL presentano una velocizzazione audio/video del 4% rispetto all’originale NTSC (eccezione: proiezione al cinema e bluray).
    Questo determina un’alterazione della durata dell’audiovisivo, dei suoi tempi e dei suoi ritmi (tempi di sceneggiatura, montaggio, regia), oltre ad una modifica del tono dell’audio (recitazione e musiche).
    Tutti i DVD PAL sono lavorati in questo modo.
    Eppure non mi sembra che – purtroppo – nessuno si sia mai stracciato le vesti a riguardo.
    Citandoti, questi detrattori del doppiaggio dovrebbero anche dire: “il film è stato concepito dal suo regista con questi tempi, quindi per rispetto dell’opera bisogna vederla alla sua velocita’ originale).

  7. Alberto Cassani ha detto:

    La storia del peso delle parole nelle diverse lingue è una delle cose su cui io e Gualtiero ci siamo trovati più d’accordo, nella conversazione prima dell’intervista. E probabilmente è ancora più vera con i cartoni animati, dove non viene in supporto dello spettatore la mimica facciale dei personaggi e quindi l’enfasi delle frasi è davvero tutta sul tono di voce. Poi io come traduttore sono molto meno integralista di Gualtiero e tendo a mettere la comprensibilità del testo prima anche della completa aderenza (converto le miglia in chilometri, ad esempio), ma son due scuole di pensiero valide allo stesso modo finché vengono applicate correttamente.

    Sulla differenza tra PAL e NTSC, in realtà il discorso vale solo se si parla di produzioni televisive, in cui quindi la fonte di partenza gira a 29,97 fotogrammi al secondo dell’NTSC invece dei 25 del PAL, senza contare poi che il PAL ha quasi il doppio delle linee dell’NTSC e che quindi nella conversione viene proprio alterata anche l’immagine. Per i film però è diverso perché si parte dai 24 fps del cinema e vengono fatti due telecinema diversi, e a quel punto quello PAL è il più simile alla fonte originale. Poi ci sarebbero tutti i prodotti orientali, che sono codificati col SECAM…

  8. Gualtiero Cannarsi ha detto:

    Occorre ricordare che un doppiaggio non distrugge l’originale, nélo sovrascrive: nel senso che l’originale esiste e resta sempre disponibile per chi intendesse conoscerlo.

    Un buon doppiaggio, fedele all’originale nel testo e nella recitazione, permette di fruire un’opera audiovisiva in lingua tradotta mantenenone quanto più intatta la portata e l’immedietezza comumicativa *audiovisiva*. Credo sia la scelta migliore per una “prima visione”. Il che non toglie che, anche dinanzi al miglior doppiaggio, l’originale è l’originale ed è irraggiungibile e insuperabile – per una questione ontologica in primis. Quindi, una volta visto un film con un buon doppiaggio, se lo si è apprezzato, allora ancor meglio sarebbe andarlo a riscorprire nella sua lingua originale con dei buoni sottotitoli. Che ne dite?

    Il doppiaggio, il buon doppiaggio, resta sempre “un falso di servizio”.

    Se è onesto e fedele svolge un buon servizio, tutto qui. 🙂

  9. Alberto Cassani ha detto:

    Ovviamente ogni discussione non può prescindere dalla bontà del lavoro, sia per quanto riguarda il doppiaggio sia per i sottotitoli (ed estendendo il discorso, anche per le traduzioni letterarie).

    Io ritengo che la doppia visione italiano-originale (o anche viceversa) sia quasi necessaria per un critico cinematografico che opera sul mercato italiano, ma molti miei colleghi non solo ritengono che vedere la versione doppiata sia inutile (alla faccia, come dicevo, dei loro lettori) ma anche – al contrario di te, Gualtiero – che i sottotitoli siano una forma più rispettosa dell’opera originale e più efficace rispetto al doppiaggio. In effetti a questa cosa dell’audiovisivo/testovisivo non pensa nessuno (e non c’avevo mai pensato nemmeno io, prima che ne parlassi tu), ma si tratta effettivamente di un modo completamente diverso di fruire l’opera. E non è una cosa che andrebbe sottovalutata.

  10. Plissken ha detto:

    Ricordo che avemmo modo di discutere tempo fa su pregi e difetti del doppiaggio (nella recensione di “12 anni schiavo”) per cui evito di ripetermi esternando nuovamente i miei pensieri in argomento, ma non posso esimermi dal complimentarmi per la bontà dell’articolo.

  11. Alberto Cassani ha detto:

    Sì, infatti nell’occasione vi avevo preannunciato quest’intervista. Solo che per un motivo e per l’altro c’è voluto molto più del previsto per riuscire a realizzarla (però ne valeva la pena). Grazie dell’apprezzamento.

  12. Vulfran ha detto:

    Bella intervista, che tocca molti punti interessanti.
    Il problema del significato del film è complesso. Mi è capitato di vedere “Mud” prima in lingua originale e poi in italiano e ho notato che la trama diventava quasi diversa per via dell’uso delle voci sbagliate: i ragazzini sono stati doppiati da adolescenti che hanno già avuto la muta della voce, mentre nell’originale sono ragazzini con la voce bianca, con un coming out of age alla Stephen King, che spesso si concentra su preadolescenti. Usare la voce di quindicenni altera proprio la trama, mi sembra; in ogni caso crea un effetto straniante. Comunque, fuor di polemica, giusto per sapere: chi è che prende certe decisioni? C’è un addetto specifico o per ogni film c’è una situazione differente?
    Vorrei poi sapere se tra gli addetti ai lavori ci sono discussioni sull’impiego dei sottotitoli per le parti cantate della colonna sonora. Mi è capitato di vedere “A touch of sin” di Jia Zhangke sia in originale con i sottotitoli in inglese sia nella versione doppiata in italiano: la scena finale (quella con l’opera) senza sottotitoli risulta molto più incomprensibile. Se in “Inside Llewyn Davis” uno non capisce i testi, il film perde parecchio ma parecchio, e considerando anche che il folk americano è di difficile comprensione ‒ sia per i testi (spesso molto evocativi e un po’ criptici) sia per la pronuncia (a volte anche i madre lingua hanno problemi) ‒ i sottotitoli ci vogliono. Oppure penso a Xavier Dolan: se uno in “Mommy” non capisce il testo delle canzoni non entra appieno nel film. Tra l’altro la grafica attuale consentirebbe pure di inserire testi in maniera efficace durante queste specie di videoclip.

  13. Alberto Cassani ha detto:

    Le decisioni ultime spettano al distributore. Un distributore che ha tempo e soldi per lavorare bene può far fare traduzione e adattamento all’inizio, poi scegliere i singoli doppiatori. I distributori più piccoli invece fanno fare la traduzione poi si affidano in toto a un’agenzia di doppiaggio, che quindi usa i doppiatori che ha sotto contratto a prescindere dai personaggi. In entrambe le situazioni ci sono casi in cui una certa decisione è imposta dal distributore e altri in cui invece è fatta dal direttore del doppiaggio e poi approvata dal distributore.

    Discussioni sui sottotitoli per le parti cantate non credo ci siano mai state perché evidentemente è un problema ritenuto di secondaria importanza, visto il numero relativamente basso di film interessato. Va detto che fino all’anno scorso sottotitolare un film era particolarmente costoso perché bisognava stampare i sottotitoli su ogni singola copia del film (una stampa interamente sottotitolata costava il doppio di una normale), mentre oggi con le copie digitali è un lavoro tecnicamente semplice e piuttosto a buon mercato.

  14. Vulfran ha detto:

    Grazie per le informazioni, ora almeno so con chi prendermela!
    Sono contento di sapere che ora la sottotitolatura delle parti cantate sia più abbordabile, tenendo conto di come la scelta delle canzoni per le colonne sonore stia diventando sempre più raffinata. Non sono usate soltanto per il sound, ma anche per i testi.

  15. Giovanni ha detto:

    Bravo Gualtiero. Così si fa.
    Domanda: se tu dovessi tradurre “toccare ferro” in inglese come faresti? Secondo quanto dici sarebbe rigoroso dire “touching iron” ma per un inglese non avrebbe alcun senso. Dire “touching wood” è invece esattamente quello che “toccare ferro” intende. Forse l’adattamento ha anche a che fare con il contesto locale? I tuoi “adattamenti” (Ahahah) per tutto il materiale dello studio ghibli fanno ridere. Non hanno senso. Certo, sei stato bravissimo a prendere ogni frase e a TRADURLA pedissequamente ma non hai aiutato la divulgazione di quell’opera né tantomeno hai aiutato la comprensione; non hai saputo far arrivare il messaggio. Se non te ne sei reso conto hai allontanato ancora di più l’Italia da queste superbe opere.

  16. Alberto Cassani ha detto:

    Questa è una questione che si trascina sin dai primi lavori di Gualtiero per lo Studio Ghibli, e ho visto che ci sono alcuni gruppi su Facebook votati proprio alla critica dei singoli adattamenti, ma personalmente non ho mai trovato faticoso né fastidioso ascoltare i suoi dialoghi. Anzi, il vocabolario desueto che ha usato mi dà l’impressione di aggiungere qualcosa alla dimensione fantastica dei film, anche per il contrasto con l’italiano piatto che si ascolta invece di solito (soprattutto nei cartoni animati) e che invece mi fa imbestialire.

    In ogni caso bisogna ricordare che il lavoro di adattamento non deve “aiutare la divulgazione di un’opera”, né tantomeno la sua comprensione: se traduco Shakespeare non lo posso tradurre in italiano moderno perché altrimenti è poco comprensibile… Gualtiero ha cercato di riportare in italiano il linguaggio usato dai personaggi creati dallo Studio Ghibli, e se si vuole criticare il suo lavoro si dovrebbe farlo da questo punto di vista, non per quanto è stato utile alla divulgazione o alla comprensione dei film.

  17. Giovanni ha detto:

    OK allora non critichiamolo per la divulgazione che, tutto sommato come dici tu, può anche aver in qualche modo migliorato (anche proprio per le critiche che ha sollevato..che se ne parli bene o male l’importante è che se ne parli).
    Continuo a dire che prendere le frasi e tradurre le singole parole perché in giapponese sono scritte così mi sembra riduttivo. Continuo a dire che va tradotto il significato della frase (di nuovo l’esempio di touching wood in inglese). Alcune espressioni sono intraducibili! Pensa ai nostri dialetti italiani, come fai a tradurli in un’altra lingua? Puoi provare a tradurre solo il significato! I vecchi doppiaggi facevano ciò e se invece del più corretto DioBestia usavano Dio della Foresta beh..forse era meglio cosi..

  18. Alberto Cassani ha detto:

    Scusa, Giovanni: non capisco in che modo “Dio della foresta” tradurrebbe il significato di un’espressione che vuol dire “Dio dalla forma animale”. Se tu stesso scrivi che “Dio bestia” è più corretto, per quale motivo poi dici che non doveva essere usato? “Dio della foresta” e “Dio bestia” vogliono dire due cose completamente diverse: una si riferisce all’ambiente su cui il dio veglia, l’altra alla forma che assume quando si manifesta. E’ come tradurre “vestito” con “armadio”! Non è che dicendo “Dio bestia” lo spettatore capisce meglio di cosa si sta parlando.

    Al di là di questo (e lasciando da parte anche il fatto che i vecchi doppiaggi inventavano di sana pianta interi dialoghi e situazioni), Gualtiero non traduce le singole parole, ma traduce una stessa parola o espressione sempre allo stesso modo, per rendere in italiano l’estensione del vocabolario dei personaggi. E’ vero che questo ha creato alcune situazioni in cui le frasi sono eccessivamente barocche (ma semmai io gli contesto il fatto di averlo fatto in maniera unitaria per tutta la filmografia Ghibli, mentre secondo me sarebbe stato da fare singolarmente per ogni film), ma in realtà è una cosa che in traduzione si fa sempre (o si dovrebbe fare sempre): se decido di tradurre “rocket” con “razzo”, poi non posso metterci dentro un “missile” perché altrimenti il dialogo è troppo ripetitivo! Tra l’altro non capisco cosa c’entri quello che scrivi sui dialetti: si traducono come qualsiasi altra lingua…

    Poi, comunque, io non ho scritto che il suo lavoro ha migliorato la divulgazione dei film Ghibli: ho scritto che non è compito del traduttore/adattatore/direttore del doppiaggio preoccuparsi della divulgazione di un film. Anzi, nell’ambiente del doppiaggio le peggio cose si sono viste proprio quando l’hanno fatto.

  19. Giovanni ha detto:

    È come in ospedale: operazione riuscita benissimo, abbiamo fatto tutto da manuale ma il paziente è morto.
    Gualtiero è stato bravissimo nel raggiungere il risultato che aveva in mente ma per molti il risultato è inascoltabile.

    Tutto sommato credo che riusciremo a sopravvivere entrambi a questa cosa.

  20. Emiliano ha detto:

    Ma per carità. Bene ha detto Giovanni, e ha fatto un esempio calzante. Una buona traduzione deve almeno TENDERE a ottenere nella lingua di arrivo lo stesso effetto (o ciò che più vi si avvicina) che un’espressione ha nella lingua di partenza. Questo è l’ABC della traduzione. Un ABC di cui le “traduzioni” di Cannarsi non tengono affatto conto. Sono trasposizioni da nerd, non certo da cinefilo, e non parliamo poi di divulgazione. Creano – e per fortuna solo per la durata dei film – una sorta di ircocervo, di neolingua farraginosa, inesistente, che nessuno parlerebbe mai.
    A dire il vero, forse è stato e continua a essere persino più dannoso l’approccio mainstream delle “nuove” (diciamo degli ultimi quindici-vent’anni) traduzioni dei film USA, frettolose e approssimative ma sempre più letterali: queste hanno un’influenza enorme anche sull’Italiano parlato, una specie di italiese di cui troviamo testimonianza nell’esperienza di tutti i giorni.

  21. Alberto Cassani ha detto:

    Emiliano, ma guarda che il lavoro di Gualtiero è volto proprio a questo: a rendere in italiano non solo il significato ma anche la particolarità del linguaggio usato nei cartoni Ghibli. Vuole proprio provare a rendere in italiano lo stesso effetto che ha in giapponese, e dare in italiano la stessa impressione che ha in giapponese l’estensione del vocabolario usato dai personaggi.
    Gualtiero traduce le frasi in modo arzigogolato proprio perché lo sono anche in originale. Ho letto in giro su internet che in realtà non sarebbe così, e che i dialoghi originali sarebbero invece perfettamente naturali, ma non conoscendo io il giapponese non sono in grado di dire se sia vero o meno. Ecco, questa sarebbe una critica legittima (se poi comprovata, ma appunto non posso dirlo). Non lo è però la tua: che importanza ha se nessuno parlerebbe mai come fanno i personaggi? I personaggi parlano così, e tanto basta! Se usano termini arcaici o desueti, se usano modi di dire inventati, non è forse compito del traduttore riportare in italiano questa loro particolarità?

    Facciamo degli esempi concreti: quando io ho tradotto dei fumetti statunitensi degli anni 60, ho tradotto “computer” (o forse era “computing machine”, non mi ricordo) con “calcolatore”, perché in quel periodo il termine in uso nella nostra lingua per definire quell’oggetto era quello. Non mi importa – e non mi deve importare! – se oggi non si usa più e al lettore può far ridere: il personaggio deve esprimersi in quel modo perché è quello il corrispettivo più fedele al modo in cui si esprime nella lingua originale.
    Facciamo altri esempi concreti: portatemi voi degli esempi di dialoghi male adattati da Gualtiero rispetto all’originale. E non intendo le frasi arzigogolate con vocaboli particolari che si trovano su Facebook: ditemi qual è la traduzione corretta di una frase rispetto a quella usata da Gualtiero, non quella che sarebbe più naturale o moderna. Spiegatemi perché la sua traduzione è sbagliata. Perché “Dio della foresta” non può essere “meglio” di “Dio bestia”: vogliono dire due cose diverse, quindi una delle due espressioni è una traduzione sbagliata. Quale?
    E lo dico con il massimo dell’apertura mentale, perché ripeto che non conosco il giapponese: Gualtiero ha dato una spiegazione al modo in cui costruisce le frasi nei suoi adattamenti, nessuno ha invece mai spiegato in termini accettabili perché queste sue frasi sarebbero sbagliate, perché i dialoghi in realtà non sarebbero arzigogolati come lui vuol far credere. Allora facciamo degli esempi concreti: prendiamo originale, traduzione cannarsiana e traduzione anti-cannarsiana e vediamo di capire quale delle due è più corretta. Ad esempio qual è il termine originale di “Dio della foresta”/”Dio bestia”? Cosa vuol dire, esattamente?

    Sulla piattezza delle traduzioni dei dialoghi cine-televisivi dell’ultimo decennio abbondante sfondi una porta aperta, con me. Può darsi sia spesso colpa della fretta con cui si devono fare le traduzioni, ma l’impressione è che si voglia far parlare i personaggi sempre e comunque nel modo più semplice possibile. Il che include le traduzioni più banali di alcuni termini ricorrenti, nonostante siano traduzioni inadatte alla lingua italiana. Io ogni volta che vedo un “fucking” tradotto con “fottuto” sento il bisogno di prendere a sberle il direttore del doppiaggio…

  22. Emiliano ha detto:

    Alberto, guarda, esistono (meglio: io sono a conoscenza di) almeno una pagina e un gruppo sul più diffuso social network dedicate alle “traduzioni” dei film Ghibli. Lì di esempi ne trovi quanti ne vuoi. Nella pagina trovi persino decine e decine di meme con le frasi più assurde. Nei commenti, fra una (comprensibile) perculata e un’altra, trovi anche interventi di gente che magari il giapponese lo ha studiato e lo sa, e proposte di traduzioni più sopportabili. Lasciamo stare la presunta “poesia” o la presunta aulicità: queste sono traduzioni che persino definire letterali è sbagliato. Se un tizio ha una tizia di fianco e la deve presentare a una classe, secondo te puo mai dire “da questa parte la signorina X Y”? No, non so il giapponese, ma se uno studente del primo anno di un corso di giapponese mi dice che fra le prime cose che gli hanno insegnato è che “kochira” è un modo cortese per indicare una persona vicino a te quando la presenti, e che normalmente si traduce con “Questa/Lei è…”, di chi mi devo fidare? Di uno che altrove lascia alla lettera “DIO BESTIA”?! Oh, io non sono mica un bigotto e figuriamoci se mi scandalizzo, ma se in giapponese suona bene, in italiano suona inevitabilmente come una bestemmia (mi sarebbe piaciuto vedere quel film in una sala di Livorno, per dire…). E allora l’adattatore interviene e si ingegna per rendere questa espressione plausibile, e per evitare scoppi di risa in sala. E sì, “Dio della foresta” è più lungo e faticoso ma non “sbagliato”, e apprezzo lo sforzo del traduttore. Ma se dici “vogliono dire cose diverse, quindi una delle due traduzioni è sbagliata” allora davvero mi interrogo su cosa deve essere per te una traduzione, e su cosa tu intenda con “traduzione sbagliata”. Hai mai letto dei saggi sulla teoria della traduzione?

    E davvero sei convinto che la lingua originale dei film in questione sia così assurda come risulta in Italiano? Bisognerebbe vedere un film in giapponese seduti di fianco a un giapponese, e vedere se strabuzza gli occhi e capisce la metà di quello che viene detto come succede a un italiano quando sente queste traduzioni, per capirlo. In questo caso, allora sì, sarebbero traduzioni perfette.

    Sapere il giapponese non è obbligatorio per farsi un’idea di una traduzione, che deve giocoforza essere anche un adattamento, tanto più che stiamo parlando di un doppiaggio. Esattamente come, all’altro estremo, non è sufficiente, comunque, “sapere il giapponese” (a che livello, poi?) per tradurre un testo. Perché tradurre vuol dire anche veicolare in maniera comprensibile ai più (e non solo ai nerd o ai parlanti giapponese; e devi farti capire da Montale ed Eco ma anche da Gasparri e Razzi, insomma) dei concetti che fanno parte di una cultura. Quindi di quella cultura bisogna essere approfonditi conoscitori, ma ancora non basta. Perché bisogna essere anche e soprattutto dei conoscitori dell’italiano e della cultura italiana, e anche bravi comunicatori, e sapere – per esempio – che se dici “dio bestia” la gente ride.

    Con “calcolatore” fai un esempio che non c’entra molto con quello che stiamo dicendo, perché parli di un problema diverso, ovvero di come cambiano le traduzioni nel corso dei decenni. Hai fatto bene, all’epoca, a tradurre così, perché all’epoca così si diceva in Italia (oppure “elaboratore”, parola a cui peraltro sono affezionato perché compare in una splendida canzone di Dalla e Roversi). Se oggi lo traduci così, l’editore ti licenzia e fa bene, a meno che non si voglia ottenere un effetto “traduzione rétro”, naturalmente. Ma per rimanere in questo campo, avresti mai tradotto, anche all’epoca, “computer” con “computatore”? No, sarebbe stato un errore. Ecco, per capirci, Cannarsi tradurrebbe proprio così: computatore.

    Con “fottuto” siamo in un altro campo ancora, dato che oramai sa molto di traduzione anni Ottanta, massimo Novanta, e fa più che altro tenerezza. È da un pezzo che si trovano traduzione di “fucking” non con un aggettivo, ma con volgarità tipo “del cazzo”, “quel cazzo di”, et c. In ogni caso, Cannarsi tradurrebbe non con “fottuto”, ma con “fottente”.

  23. Alberto Cassani ha detto:

    No, forse mi sono spiegato male: non ho tradotto un fumetto NEGLI anni 60, ho tradotto tre anni fa un fumetto DEGLI anni 60, che in Italia non era mai stato pubblicato (non sono così vecchio da essere stato adulto negli anni 60: sono nato nel 1972!). E ho fatto la scelta che ho detto proprio perché la storia è ambientata negli anni 60, e i personaggi si devono esprimere come si esprimevano all’epoca, non come si esprimerebbero oggi, altrimenti si perde l’effetto del leggere una storia d’epoca. In pratica ho adatto il dialogo italiano a quello originale, e non viceversa: questo è esattamente quello che fa Gualtiero. Poi magari lui tradurrebbe davvero “computatore”, non so…
    Non solo: in più di un volume (sempre a fumetti, nei romanzi non mi è mai capitato) ho fatto parlare i personaggi dandosi del voi perché situazioni ed epoche richiedevano una certa distanza, nei dialoghi. Addirittura, in “47 Ronin” (che è ambientato nel Giappone feudale ma è scritto in inglese, essendo un fumetto statunitense) ho alternato tu, lei e voi a seconda del rapporto che lega o divide i personaggi. Sperando che la cosa non abbia creato confusione nella testa dei lettori, ma nessuno se n’è lamentato, che io sappia…

    I gruppi su Facebook con i meme li conosco anch’io, ma come ti ho scritto nell’altro commento, non mi interessano. Le perculate sulla fraseologia e sui vocaboli a volte mi divertono, ma in questa discussione esulano dal discorso: il punto non è se la frase suona naturale o meno, ma se la traduzione è corretta (sia come traduzione nuda e cruda sia come grammatica italiana). E appunto, ci sono 200 o 300 commenti di perculate con uno o due commenti più “tecnici”. Io a questi commenti tecnici non ci sono mai arrivato perché smettevo di leggere prima. Per questo chiedevo esempi concreti, perché in questo thread nessuno li ha mai fatti, né in altri siti (sempre che io sappia) al di fuori di FB: le critiche sono sempre relative all’aulicità della fraseologia e del vocabolario, non si entra mai nello specifico delle traduzioni.
    Tu hai fatto (finalmente!) l’esempio di “kochira”. Ecco, dando ovviamente per buona la traduzione che citi posso dire che in questo caso Gualtiero ha sbagliato la traduzione, e da quello che posso capire ha sbagliato proprio perché traduce un vocabolo sempre allo stesso modo. Non è questione di traduzione letterale: “kochira” (sempre da quello che capisco) si può usare anche per dire “da questa parte X, da quest’altra Y”, quindi la sua traduzione in sé è corretta ma non lo è in quel frangente. Quindi è sbagliata.
    Ma appunto, io vorrei che quelli che conoscono il giapponese e criticano Gualtiero, lo facessero da questo punto di vista: chi se ne frega (professionalmente parlando) delle perculate e degli arzigogoli linguistici? Quale sarebbe la traduzione corretta della frase? Vediamo dove e come ha sbagliato, se ha sbagliato. Chiaro, questo tipo di discorso interessa quattro gatti, e i meme non ce li puoi fare…

    Io non sono convinto che in originale i dialoghi siano così arzigogolati come li traduce Gualtiero. Ma lo ritengo possibile, trattandosi quasi sempre di film fantasy: non sono forse arzigogolati i dialoghi di Harry Potter o Il signore degli anelli? Meno di quelli di Gualtiero, certo, ma non sono “normali”, proprio per via della loro componente fantasy. Ma soprattutto: Gualtiero ha dato, in questa mia intervista e altrove, una giustificazione che rende appunto plausibile pensare che lo siano. I gruppi Facebook e i loro meme invece hanno sempre evitato di provare il contrario, concentrandosi sempre sulla sua traduzione e mai sul confronto con l’originale. Non c’è una tesi e un’antitesi, insomma: c’è una campana sola, che suona.

    Su “Dio bestia” non siamo d’accordo. O meglio, sono d’accordo che avrebbe dovuto porsi il problema (ma non ho visto Mononoke nella sua versione, quindi non so che reazione avrei avuto guardandolo e se nel film risulti davvero ridicolo), ma non che “Dio della foresta” è una traduzione migliore corretta. Non puoi dire “uomo vestito di nero” invece di “uomo nero”! Le due frasi si riferiscono a due cose diverse, Dio bestia (dio dalla forma animale) e Dio della foresta (dio che veglia su un determinato luogo). Se Dio bestia (o uomo nero) non ti sta bene trova un altro modo di dire la stessa cosa, ma devi dire quella cosa, non un’altra. Per questo dico che “Dio della foresta” è sbagliato: perché si riferisce a una cosa diversa rispetto alla frase originale.

    Detto questo, le minchiate di traduzione le ho scritte anch’io, eh? In un romanzo sono riuscito a scrivere 15.000 invece di 1.500 (in lettere), perché il numero era espresso nella forma statunitense “fifteen hundred”, ossia 15 volte 100. E nonostante io conosca l’americano più dell’inglese, nella fretta ho sbagliato, e pur rileggendo il mio lavoro tre volte non mi sono accorto dell’errore. Né se n’è accorta la editor, e quindi il libro è uscito così.

  24. Emiliano ha detto:

    Ok, scusa per se sono caduto nell’equivoco (nella fretta avevo letto “negli”, appunto), ma insomma vale quello che avevo scritto per l’ipotesi di “traduzione rétro”, e in questo senso convengo che tu abbia fatto una buona scelta.
    Per quanto riguarda i famosi meme della pagina dedicata a Cannarsi, non vorrei passare per quello che crede ai social network (che, anzi, non amo particolarmente) o che, peggio, li usa per “farsi una cultura”. Ma come vedi, ti ho portato un esempio più che concreto, avendo spizzato solo due o tre post in cinque minuti soltanto, quindi non credo sia difficile trovare altri casi di critiche circostanziate e nel merito a traduzioni proprio sbagliate come quella. A proposito di traduzioni “sbagliate” o “giuste”, come le definisci, dicevo che è interessante approfondire su testi teorici sulla traduzione: tu senz’altro lo conoscerai già, ma consiglio a tutti la lettura di “Dire quasi la stessa cosa” di Eco, sulla natura sempre negoziale della traduzione, sul concetto di traduzione “letterale”, su compromessi ed escamotage, anche geniali (perché, in definitiva, di questo si tratta), che sono necessari quando si traduce.
    Sull’ormai mitico “dio bestia”: non credo che “dio della foresta” sia la traduzione migliore che si possa inventare, anzi, ingegnandosi un po’ si può trovare di meglio, ma di certo so che “bestia” è quanto di peggio, per i motivi che dicevo.

  25. Giovanni ha detto:

    Ma perché esistono le traduzioni? Il modo migliore per assaporare tutte le sfumature di un dialogo è certamente nella lingua originale. Dovendo tradurre una lingua occidentale come l’inglese il lavoro è piuttosto semplice: cultura simile, abitudini e stili di vita simili, storia dei popoli strettamente correlata. Con il giapponese inevitabilmente dobbiamo portare non solo il significato delle parole ma anche la storia è la cultura dietro certe espressioni, gesti e comportamenti. Mi chiedo: era veramente necessario scegliere uno stile che mettesse ulteriormente in difficoltà gli spettatori? Il 99% non sa il giapponese ne tanto meno conosce il Giappone e la sua cultura e Cannarsi non aiuta la comprensione. Sicuramente non aiuta la comprensione dei dialoghi ma nemmeno della cultura che inevitabilmente finisce in secondo piano. A mio avviso il suo lavoro è un fallimento in questo progetto.

  26. Anonimo ha detto:

    Ecco un esempio di traduzione che ben descrive il personaggio intervistato.

    Cannarsi, in “Kiki consegne a domicilio” fa dire alla protagonista:

    “certo con un vestito un pochino più stupendo sarebbe meglio”

    Non esiste giustificazione per una simile traduzione, se non che anche nell’originale fosse presente uno strafalcione lessicale (cosa che non è).

    Una maestra correggerebbe con la penna rossa questa frase, fosse stata scritta da un bambino delle elementari.

    Cosa renda accettabili queste traduzioni, mi è del tutto oscuro.

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