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Le mani sul FUS

29 ottobre 2012 Articoli 0 Commenti
Le mani sul FUS

Pubblicato su Players Magazine #19

Creato nel 1985, il Fondo Unico per lo Spettacolo distribuisce i soldi che il Governo mette ogni anno a disposizione del cinema italiano. Ma ogni anno più di un dubbio sorge sui criteri con cui questi soldi vengono assegnati, e a volte non sono solo dubbi…


"Io sono l'amore" di Luca GuadagninoUn anno fa ebbi il piacere di partecipare al primo podcast ufficiale di Players Magazine, dedicato nell’occasione al cinema italiano. Dopo una ventina di minuti di discussione sul desolante panorama attuale, il condirettore Andrea Chirichelli mi chiese di accennare al modo in cui sono gestiti i fondi pubblici dalla nostra industria cinematografica. Volendo sintetizzare illustrai per sommi capi come sono spartiti i soldi messi a disposizione dal Fondo Unico per lo Spettacolo e chiusi dicendo sostanzialmente che non c’è alcun motivo per cui i film di Fausto Brizzi debbano essere finanziati dallo Stato. Ma non è vero. Il motivo c’è, ed è molto semplice: i soldi messi a disposizione dal Fondo Unico per lo Spettacolo sono gestiti male.

"Barbarossa" di Renzo MartinelliIstituito nel maggio del 1985, il FUS ha il compito di sostenere finanziariamente «enti, istituzioni, associazioni, organismi ed imprese operanti nei settori delle attività cinematografiche, musicali, di danza, teatrali, circensi e dello spettacolo viaggiante, nonché per la promozione ed il sostegno di manifestazioni ed iniziative di carattere e rilevanza nazionali.» Ogni anno la Legge Finanziaria stabilisce la cifra a disposizione del FUS, che viene poi ripartita tra i diversi settori che ne hanno diritto. Per il 2012 il Governo ha messo a disposizione quasi 411,5 milioni di euro, di cui 76,5 (il 18,59%) destinati all’attività cinematografica. A parte Hugo Cabret di Martin Scorsese, nessuno dei film nominati agli ultimi Oscar nella categoria principale è costato più di 50 milioni di euro. Il che vuol dire che nonostante siano molti meno di quelli stanziati da altre nazioni, quelli messi a disposizione dal FUS al cinema italiano, potenzialmente, sono un sacco di soldi. Il problema è che l’assegnazione di questi soldi è sempre stata fonte di polemiche, fin da quando era regolata dal famigerato “articolo 28”.

"Ecce bombo" di Nanni MorettiDal 1965 al 1994 i soldi pubblici destinati al cinema sono stati gestiti in base appunto all’articolo 28 della legge 1213/65, che prevedeva «con particolare riferimento ai nuovi autori nell’ambito dello spettacolo cinematografico nazionale» l’assegnazione dei fondi a progetti «che contribuiscano all’accrescimento del patrimonio artistico e culturale del cinema italiano», fino alla copertura di un massimo del 30% del budget di produzione. Questi soldi erano però un prestito che lo Stato faceva ai produttori, i quali avrebbero perso i diritti sulla pellicola se non l’avessero restituito. In trent’anni, con l’articolo 28 sono stati finanziati circa 500 film, alcuni dei quali sicuramente meritevoli: Pupi Avati, Gabriele Salvatores, Nanni Moretti, Sergio Rubini, Francesca Archibugi, Mario Martone e i fratelli Taviani sono tra i registi che hanno potuto usufruire dei fondi pubblici a inizio carriera. A fianco di nomi e titoli importanti, però, figurano anche personaggi sconosciuti e film mai usciti, per non parlare di produttori disonesti.
"Ex" di Fausto BrizziAl di là dell’effettivo interesse cultural-artistico di un progetto e dell’avere un regista esordiente, l’assegnazione dei fondi veniva fatta sulla base dei documenti presentati dalla produzione. Una volta assegnato il finanziamento, però, da parte dello Stato non veniva più fatto alcun controllo, dando così modo ai produttori di girare il film solamente con i soldi pubblici invece che mettendoci anche i propri, oppure di girarlo con ancor meno della cifra ricevuta così da intascarsi il resto, o addirittura di mettersi in tasca tutto e non realizzarlo nemmeno. E fa niente se in questo modo il film che ne esce (quando esce, appunto…) è di pessima qualità: nel budget sono compresi gli stipendi e quindi chi ci lavora guadagna comunque, e poi starà allo Stato trovare il modo di rientrare del prestito attraverso i diritti della pellicola.
Queste pratiche poco oneste, in quasi trent’anni sono state purtroppo la normalità. Scorrendo le pagine del catalogo “Articolo 28”, pubblicato da Cinecittà Holding nel 2006, si scopre infatti che solamente 44 dei 500 film finanziati con soldi pubblici sono stati in grado di restituire il prestito. Gli altri sono diventati tutti di proprietà dello Stato. Tra questi c’è il anche il titolo che si può dire abbia in qualche modo portato al cambiamento della legge: Cattive ragazze di Marina Ripa di Meana.

"Cattive ragazze" di Marina Ripa di MeanaUscito il giorno di ferragosto 1992, Cattive ragazze aveva un budget dichiarato di 2 miliardi e 350 milioni di lire, di cui 500 milioni finanziati dallo Stato. Nei cinema il film ha registrato appena 2.700 biglietti venduti, per un incasso totale di neanche 30 milioni di lire. In compenso, però, è stato al centro di un’inchiesta della Procura di Roma riguardante proprio la malagestione dei finanziamenti pubblici. Gli altri titoli a figurare prevalentemente nell’inchiesta erano i “famosissimi” L’equivoco della luna di Angiola Janigro, Gli extra di Bruno Gentile, Punto di fuga di Claudio Del Punta e Il ventre di Maria di Memè Perlini, tutti finanziati dallo Stato per cifre comprese tra i 370 e i 500 milioni di lire. Alla base dell’inchiesta il dubbio che i finanziamenti pubblici fossero assegnati in base agli appoggi politici dei produttori invece che per la bontà del progetto, e che i budget presentati fossero regolarmente gonfiati per “farci la cresta”.
Come spesso accade nel nostro paese, tutto finisce in una bolla di sapone, per lo meno dal punto di vista giudiziario. Le polemiche e le accuse, invece, portano nel marzo 1994 a una frettolosa modifica della legge, non nella direzione che sarebbe stato lecito aspettarsi. È vero, infatti, che il decreto presta particolare attenzione alle opere prime e seconde, ma trasforma a tutti gli effetti le sovvenzioni statali in finanziamenti a fondo perso, stabilendo per i produttori l’obbligo di restituire solamente il 30% di quanto ricevuto e permettendo finanziamenti pubblici fino a un massimo del 90% del budget di produzione (70 per le opere prime e seconde) e il 25% delle spese di distribuzione. Nonostante i ritocchi urgenti effettuati da Walter Veltroni due anni dopo per ridisegnare le commissioni che assegnano i fondi e limitare a 20 il numero di pellicole da finanziare ogni anno, la situazione cambia poco.
"La regina degli scacchi" di Claudia FlorioIn un’indagine pubblicata nel marzo 2003, il quindicinale Box Office riporta che nel periodo 1994-2002 sono stati prodotti 239 film ritenuti di interesse culturale nazionale, raccogliendo il corrispettivo di 340 milioni di euro in finanziamenti statali (non tutti i film accettati ottengono un finanziamento, magari solo sgravi fiscali e aiuti distributivi). Questi film hanno incassato in sala un gran totale di 72 milioni, generando quindi una perdita per lo Stato italiano di circa 270 milioni di euro. In un’intervista rilasciata al sottoscritto nell’estate del 2005, invece, la regista Claudia Florio ha raccontato di essere stata cercata da molti produttori solo dopo che, nel 1999, le sue sceneggiature per La regina degli scacchi e Il gioco erano state dichiarate di “Interesse Culturale Nazionale”, e di essersi assicurata un contratto di distribuzione per entrambi solo grazie ai soldi pubblici che sarebbero arrivati. Nonostante la nuova legge avesse provato a sistemare il problema, insomma, i furbi continuavano a fare i furbi e il sistema continuava a non funzionare. E a generare paurosi buchi di bilancio.

"Senso '45" di Tinto BrassÈ così che si arriva alla struttura attuale della legge, datata gennaio 2004 e volta proprio a evitare che i soldi pubblici destinati al cinema spariscano nelle tasche di qualcuno. Il “decreto Urbani” ha completamente ridisegnato il panorama dei finanziamenti, limitando innanzitutto al 50% la parte di spese di realizzazione che lo Stato copre, mantenendolo al 90% solo per le opere prime e seconde. Il decreto ha inoltre introdotto la possibilità di fare product placement, dando così una possibilità di finanziamento alternativa. Soprattutto, però, ha totalmente cambiato i criteri di assegnazione dei finanziamenti: «Possono essere ammessi ai benefici del presente decreto i film che presentano qualità culturali o artistiche o spettacolari.» In più i precedenti successi economici di regista e produttore influiscono sulla valutazione della commissione. Può quindi essere definito “film di interesse culturale” anche un film che di culturale non ha nulla ma che è realizzato da professionisti di provata esperienza. Questo ha portato a due situazioni molto controverse: vengono appunto finanziati progetti che non hanno nulla di meritevole se non il curriculum di chi li presenta, e vengono finanziati registi e produttori che sarebbero tranquillamente in grado di realizzare il film anche senza i soldi dello Stato.
A vagliare le richieste e approvare materialmente i finanziamenti è la Commissione per la Cinematografia, a sua volta divisa in quattro sottocommissioni, ognuna con compiti specifici. La prima è preposta al riconoscimento dell’interesse culturale dei progetti presentati, e quindi all’assegnazione dei fondi ai produttori; la seconda fa la stessa cosa limitatamente alle opere prime e seconde; la terza si occupa della promozione; la quarta del riconoscimento dei film d’essai.
"Christine Cristina" di Stefania SandrelliDi queste sottocommissioni fanno parte critici, scrittori, direttori artistici… Persone che – chi più chi meno – di cinema ci mastica, anche se non propriamente addetti ai lavori. Persone però che, ovviamente, non sono al riparo da critiche, perché per quanto i decreti siano piuttosto chiari sul modo in cui devono essere pesate le varie componenti dei singoli progetti, alla fine le valutazioni vengono comunque fatte soggettivamente. E se nelle attuali commissioni ci sono Anselma Dell’Olio e Gigi Marzullo, qualche dubbio può venire; come può venire se Stefano Della Casa è anche presidente della Film Commission Torino Piemonte o se Dario Viganò è un uomo di chiesa prima ancora che direttore de La Rivista del Cinematografo…
Ma più che i dubbi, contano le situazioni di cui sopra. Nelle prime due delibere del 2012 (la terza si terrà tra dicembre e gennaio), la commissione ha stanziato contributi per 50 pellicole (25 opere prime e seconde). Tra i registi accettati Tornatore, Bellocchio, Virzì (due volte), Francesca Comencini, Sorrentino e Rubini. Negli anni scorsi anche Bertolucci, Iginio Straffi (quello delle Winx), Soldini, Cristina Comencini, Garrone, Amelio, Olmi… Tutta gente che, avendo alle spalle produzioni serie e nomi spendibili non avrebbe fatto fatica a trovare autonomamente i soldi, al di là della possibile componente culturale di questi loro progetti. Ma avendo appunto nomi spendibili, è più facile che i loro film funzionino e lo Stato possa quindi rientrare del prestito.
"L'uomo che ama" di Maria Sole TognazziQuesta limitazione del rischio non ha però portato all’eliminazione delle brutture che la facevano da padrone nei regimi passati. Se prima ci si chiedeva quale fosse l’aspetto culturale di un brutto film finanziato dalla Stato, oggi ci si chiede quale sia il suo aspetto “spettacolare”; se prima i soldi venivano dati a personaggi ai margini del mondo del cinema (ma evidentemente amici di…), oggi vengono dati a gente di comprovata incapacità (ed evidentemente amica di…): Claudio Fragasso, Roberto Faenza, Maria Sole Tognazzi, il prequel di Amici miei di Neri Parenti, l’orripilante Dracula 3D di Dario Argento, qualunque cosa passi per il PC di chiunque si chiami Comencini, ogni sparata politica di Renzo Martinelli… E ovviamente tutti i film del Fausto Brizzi di cui si è detto 10.000 caratteri fa…

"Quando la notte" di Cristina ComenciniLe leggi passano ma le brutture restano, insomma. Finché ci saranno i finanziamenti pubblici, ci saranno polemiche e scelte sbagliate, e gente che ne approfitta. Forse sarebbe meglio staccare la spina e lasciare che il cinema italiano cammini con le proprie gambe – magari con un sistema di autofinanziamento come quello francese, in cui il 12% di ogni biglietto venduto finisce nel corrispettivo transalpino del FUS – ma chi nel cinema italiano ci lavora si è sempre opposto a decreti che toccassero le sovvenzioni dirette. Comodo fare il produttore con i soldi degli altri, eh?


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